“I negoziati internazionali non possono avanzare in maniera significativa a causa delle posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune globale”. E infatti “i Vertici mondiali sull’ambiente degli ultimi anni non hanno risposto alle aspettative perché, per mancanza di decisione politica, non hanno raggiunto accordi ambientali globali realmente significativi ed efficaci”.
Sono giudizi espressi da papa Francesco nella Laudato si’, riferendosi ai summit ambientali che si sono susseguiti a partire dal Vertice della Terra di Rio de Janeiro (1992) fino alla lunga sequenza delle CoP (Conferenza delle Parti), cioè la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, svoltasi 25 volte da quella di Berlino nel 1995 a quella di Madrid nel dicembre 2019.
Gli stessi giudizi di insignificanza e inefficacia si dovranno applicare anche alla 26esima edizione in programma da oggi al 12 novembre a Glasgow? Alcuni elementi fanno pensare a un esito non positivo, altri alimentano le speranze per un accordo non formale e in grado di avviare azioni adeguate a difendere “la nostra casa comune” dal riscaldamento globale.
I complessi e prolungati lavori della CoP 26, oltre a una serie di eventi di contorno di interesse prevalentemente mediatico, si baseranno su un esame approfondito dei progressi compiuti in relazione agli impegni assunti con gli accordi di Parigi al termine della CoP21, che puntavano a mantenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali e di proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5°C. È un traguardo non ancora raggiunto e la situazione potrebbe peggiorare nei prossimi decenni in assenza di provvedimenti adeguati: questa almeno è la valutazione sintetica contenuta nell’ultimo rapporto dell’Ipcc, l’organismo delle Nazioni Unite che raccoglie ed elabora tutti gli studi e le ricerche scientifiche sui cambiamenti climatici.
Quali sono allora i principali obiettivi della CoP 26? Si possono riassumere in quattro punti: garantire l’azzeramento delle emissioni globali nette entro la metà del secolo; mantenere realizzabili gli 1,5°C di riscaldamento globale rispetto ai livelli preindustriali; impegnarsi a mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2025 per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare gli effetti negativi dei cambiamenti climatici; finalizzare la serie di norme che guidano la piena attuazione degli accordi di Parigi.
L’obiettivo della riduzione delle emissioni climalteranti non è irraggiungibile. In tal senso è da a segnalare la situazione dei Paesi Ue, dove nel 2019 le emissioni sono state del 24% inferiori a quelle del 1990, superando il limite di riduzione del 20% che l’Europa si era fissata per il 2020; e ciò, si noti, senza diminuzioni del Pil che, nello stesso periodo, è decisamente aumentato. Tutto ciò non è ancora sufficiente e soprattutto deve offrire garanzie di continuità nei prossimi decenni. I 27 Paesi della Ue, però, non si sono accontentati dei primi risultati e hanno alzato l’asticella lanciando il Green Deal, un ampio programma di trasformazione economica, e rilanciando, al Consiglio europeo del dicembre 2020, “l’obiettivo Ue vincolante di riduzione interna netta delle emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990”.
Un elemento che condiziona la possibilità di attuazione degli accordi di Parigi e che alimenta le previsioni più pessimistiche sul nostro futuro climatico è il fatto che misure di mitigazione prese da ciascun Paese sono su base volontaria. In effetti un fattore innovativo della CoP21 era stato la nuova modalità di presentazione degli obiettivi di riduzione delle emissioni dei vari Paesi, chiamati a predisporre i Contributi Nazionali Volontari (Nationally Determined Contributions), noti come Ndc. Ciò ha messo in moto degli interessanti processi di verifica e controllo interni ad ogni Paese, ma deve scontare numerosi limiti: oltre alla volontarietà, e quindi a non risultare vincolanti, gli Ndc sono realizzati con criteri diversi per Paese e risultano tra loro poco omogenei. Inoltre, data l’arbitrarietà delle tempistiche, succede che non tutti i Paesi abbiano rispettato le scadenze quinquennali per la presentazione e non tutti sono d’accordo di mantenere la cadenza dei 5 anni per il loro aggiornamento. Il comportamento virtuoso dell’Europa rischia quindi di incagliarsi su aspetti come questo, rendendo vani tanti sforzi per elevare le ambizioni green del Vecchio continente.
Una di queste ambizioni è di arrivare in tempi brevi all’eliminazione del carbone come fonte energetica: possiamo dire di essere già sulla buona strada, se è vero quanto stimato da alcuni istituti di ricerca e cioè che nel 2019 in Europa la quota di energia elettrica ottenuta da fonti rinnovabili ha superato per la prima volta quella ricavata dal carbone. Ci sono però resistenze da parte di alcuni Stati del Centro Europa e poi, quando il programma vuol essere esteso su scala mondiale, trova subito il freno dei colossi asiatici, India e Cina, ma anche di Paesi insospettabili come l’Australia che, proprio per rimarcare la sua opposizione alla proposta di totale decarbonizzazione entro il 2030, minacciava addirittura – minaccia poi rientrata – di non partecipare alla CoP26.
L’altra grande questione che grava sul buon esito del summit di Glasgow è quella finanziaria. Lo stesso ministro italiano della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, commentando un mese fa il buon andamento della Conferenza preparatoria PreCoP26 di Milano, ha ammesso la criticità del problema del finanziamento osservando che neppure l’impegno dei 100 miliardi di dollari, assunto dai Paesi sviluppati fin dalla CoP15 del 2009, sarà sufficiente per realizzare in modo equo la svolta ambientale ed energetica su scala mondiale; peraltro, le somme raccolte in questi ultimi anni sono ancora ben al di sotto di quota 100.
Un punto interessante sul quale puntare l’attenzione durante la convention scozzese è l’Health Programme: è significativo che, in un contesto mondiale ancora gravato dalla pandemia, la salute sia stata scelta come area scientifica prioritaria della CoP26. Il Programma Salute segnala alcune priorità sulle quali impegnare tutti i Paesi e indica le condizioni operative per rispettarle; le priorità riguardano, in particolare, la costruzione di sistemi sanitari resilienti al clima e lo sviluppo di sistemi sanitari sostenibili a basse emissioni di carbonio.
Non si parlerà quindi solo di clima a Glasgow. D’altra parte il problema del cambiamento climatico, come del resto tutti i problemi ambientali, non sopporta approcci riduttivi e settoriali e richiede che si consideri la varietà e l’ampiezza delle relazioni e delle interconnessioni tra tutti gli elementi in gioco. È la prospettiva dell’ecologia integrale, per tornare a uno dei punti cardine della Laudato si’: la CoP26 sarà un banco di prova per verificare se il concetto di ecologia integrale è stato assunto solo come un altisonante slogan per incorniciare le dichiarazioni ufficiali o se inizia a farsi strada concretamente tra i meandri dell’economia e della politica.
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