Come riporta il New York Times, l’azienda farmaceutica Merck ha annunciato di aver concesso una licenza royalty-free per il molnupiravir – è il suo farmaco antivirale orale sperimentale (in fase di rolling review presso l’Ema) per il trattamento di Covid-19 negli adulti – a The Medicines Patent Pool (Mpt), organizzazione non profit sostenuta dalle Nazioni Unite, che lavora per rendere le cure mediche e le tecnologie accessibili a livello globale, consentendo al farmaco di essere prodotto e venduto a basso costo in 105 Paesi in Africa e Asia.
Una notizia positiva, secondo la dottoressa Ariela Benigni, segretario scientifico e coordinatore delle ricerche nelle sedi di Bergamo e Ranica dell’Istituto Mario Negri, perché “le terapie farmacologiche possono essere utili anche per quelle zone del mondo dove i vaccini non riescono ad arrivare e possono essere utilizzate nella fase precoce della malattia per far sì che non peggiori fino alle forme più severe”.
L’Ema ha iniziato la rolling review della pillola anti-Covid della Merck. Che ne pensa?
Il molnupiravir ha un meccanismo d’azione interessantissimo.
Perché?
Occorre partire da ciò che fa il virus quando entra nelle nostre cellule. Tende a replicare il suo codice genetico a Rna. Quello del Sars-Cov-2 è formato da tante basi differenti: è come avere una collana che ha 4 tipi di perle diverse, che si alternano fra di loro. Il virus, una volta nella cellula, si dà da fare per formare tante catene, tante collane.
Il molnupiravir come e quando interviene?
Una volta assunto nell’organismo, diventa una molecola molto simile, ma non uguale, a una delle basi dell’Rna del virus. In tal modo, quando il virus tende a formare la collana, il farmaco si frappone fra una perla e l’altra, cioè fra una base e un’altra, inserendo degli errori. A lungo andare, sostituendosi via via alle basi, il virus accumula così tanti errori fino ad arrivare alla cosiddetta mutagenesi letale. In pratica, collassa, non può più replicare e muore, perché è cambiato troppo.
Oltre che efficace, il molnupiravir è anche sicuro?
La valutazione dell’Ema si sta concentrando anche sulla sicurezza. Viene somministrato in fase precoce e per soli 5 giorni, però un meccanismo simile potrebbe anche andare a interferire con i nostri acidi nucleici. Molto probabilmente non avverrà, ma è giusto indagare a fondo su questo aspetto.
Abbiamo quindi trovato un’altra arma anti-Covid oltre al vaccino?
Attenzione: vaccino e terapie farmacologiche sono due cose diverse e non sostituibili. Il vaccino è una forma di prevenzione, attraverso la quale la comunità si protegge cercando di impedire che il virus colpisca determinati soggetti, continuando così la sua vita replicativa. Ma nessun vaccino, anche se alleggerisce molto i sintomi, protegge al 100%. E’ importante sottolinearlo, perché non è assolutamente vero affermare che si può non essere vaccinati, tanto ci sono le cure.
Che armi ha oggi a disposizione la farmacologia?
Quando il virus ci infetta, provoca alterazioni al nostro organismo a carico soprattutto delle prime vie aeree. Le cellule che rivestono le mucose di queste vie aeree sono colpite dal virus, che tende a moltiplicarsi, anche per poter passare da un individuo a un altro, e subiscono un danno di tipo infiammatorio. L’infiammazione è un po’ la prima risposta del nostro organismo, come la febbre, che è uno strumento di difesa.
Dopo due anni di studi abbiamo scoperto come funziona la catena di eventi scatenata dal Sars-Cov-2?
Sì. Dopo l’infiammazione, infatti, si attiva il cosiddetto sistema del complemento, che fa parte del nostro sistema immunitario e ci difende dagli agenti patogeni estranei. Il complemento, a sua volta, è in grado di attivare un sistema di coagulazione che può portare a delle trombosi nei nostri vasi sanguigni. Studiando tutto questo, abbiamo capito come è possibile intervenire con i farmaci.
Come la tachipirina?
All’inizio si è usata la tachipirina, il cui principio attivo, il paracetamolo, è in grado di ridurre la febbre, ma così facendo si riduceva anche la nostra prima forma di difesa. Cosa, quindi, non sempre salutare, perché proprio con le temperature alte dell’organismo è come se “cuocessimo” il virus. Il paracetamolo ha dimostrato nel tempo di non avere tutti quegli effetti favorevoli che ci si aspettava.
Quindi?
Questo ha portato a sperimentare le terapie anti-infiammatorie. Le prime, che andavano a colpire delle proteine infiammatorie chiamate citochine, prodotte dal nostro organismo, non si sono rivelate così promettenti.
Per esempio?
Il Tocilizumab, che aveva come target l’interleuchina 6, o altri farmaci inibitori dell’interleuchina 1 non sono stati molto efficaci, perché la risposta immunitaria è individuale, le proteine infiammatorie che noi produciamo sono tante e colpirne una sola, sebbene prevalente, serve a poco. Molto difficile anche individuare la finestra d’intervallo in cui somministrare questi farmaci. E il fatto che siano stati presi pazienti in fasi diverse della malattia, con diverse citochine prodotte, spiega perché non si è arrivati a risultati univoci.
La scienza è stata costretta a cambiare obiettivo?
Si è pensato allora di utilizzare gli anti-infiammatori che colpiscono quelle proteine che a loro volta servono per formare le citochine, intervenendo in modo molto generalizzato a monte, non in modo specifico. Questi anti-infiammatori non steroidei, cioè non cortisonici, sono stati oggetto di vari studi, come in India, sull’indometacina, somministrata in soggetti ospedalizzati, ma in fase precoce della malattia.
E cosa si è scoperto?
Rispetto al paracetamolo l’indometacina riduceva la necessità di ossigeno in una percentuale molto alta di pazienti. Una percentuale bassissima è stata intubata, mentre con il paracetamolo il 34% ha avuto bisogno di ossigeno.
Perché gli studi si concentrano sugli anti-infiammatori?
Perché l’infiammazione è il primum movens della malattia.
Altri studi interessanti?
Un piccolo studio inglese ha mostrato come la bromexina, principio attivo contenuto in uno sciroppo anti-tosse, fosse efficace nel facilitare il recupero dalla malattia. Un altro studio, sempre inglese e pubblicato su Lancet, si è concentrato su un trattamento inalatorio con un anti-asmatico, il Budesonide, che faceva ridurre in modo consistente le probabilità di essere ricoverati in ospedale, accorciando i tempi di recupero dalla malattia. Questo glucocorticoide inalato, se preso in fase precoce della malattia, può favorire una guarigione più spedita rispetto al trattamento con paracetamolo e vigile attesa. Infine, è giusto ricordare l’Anakirna, che inibisce l’interleuchina 1 e, se associato ad altra terapia, sembra dare buoni risultati.
Si è discusso molto sull’efficacia o meno di idrossiclorochina e ivermectina, due farmaci anti-malarici. Sono terapie efficaci?
L’ivermectina, utilizzata all’inizio in Australia, ha dimostrato la sua efficacia in vitro, facendo morire il virus. Ma il problema è che già sui piccoli animali era necessario somministrarne una concentrazione eccessiva, che può risultare tossica. Quindi anche sull’uomo si dovrebbero utilizzare dosi troppo elevate. Alla lunga la revisione degli studi in letteratura ha evidenziato che non c’era una conferma univoca sulla sua efficacia.
E l’idrossiclorochina?
Vale la stessa cosa. Anche per l’idrossiclorochina non possiamo dire che ci sia consenso sulla sua efficacia. Ecco perché questi due anti-malarici oggi sono poco considerati.
Il remdesivir ha fornito risultati migliori, vero?
Ci sono dati positivi, perché è un farmaco chiamato terminatore di catena, cioè impedisce alla collana di formare altre collane.
Sono in corso altre ricerche promettenti? Potremo avere presto altri farmaci efficaci e sicuri?
Sono in corso altri studi in tutto il mondo, in fase 2 o a inizio fase 3, ma sono ancora molto prematuri.
Il comun denominatore dei farmaci è che vengono utilizzati nella fase precoce della malattia. Ma quando questa è in fase avanzata?
Per il momento non esistono terapie specifiche, perché la malattia progredisce ed è più facile arginarla quando è in una fase precoce.
I vaccini fanno i conti con le varianti. Anche i farmaci?
No. In generale tutte le terapie farmacologiche prima vengono somministrate, più efficaci sono, perché prevengono le complicanze.
Paracetamolo e vigile attesa sono i capisaldi dell’attuale terapia domiciliare anti-Covid. Secondo lei, è ancora valida o dovrebbe essere integrata, aggiornata, modificata?
Credo proprio che sia venuto il momento di rivedere questo protocollo, alla luce di tutte le numerose conoscenze ed evidenze scientifiche che stanno emergendo. E gli enti regolatori stanno già prendendo in considerazione altre molecole.
(Marco Biscella)
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