Avrei potuto parlarvi dello spread e dei perché legati al suo strano saliscendi, proprio a ridosso di un periodo di interregno a livello di rappresentanza tedesca in seno alla Bce. Guarda caso, Christine Lagarde proprio ieri – dopo i pochi giorni di caso Italia sul differenziale con il Bund – rompe gli indugi e dichiara che una stretta finanziaria adesso frenerebbe la ripresa. Avrei potuto parlarvi di come l’uscita del ministro Speranza sulla proroga dello stato di emergenza oltre i 24 mesi previsti per legge e quella del ministro Giorgetti relativa a un Draghi che guidi il Governo anche dal Quirinale – di fatto tramutando l’Italia in Repubblica semipresidenziale grazie al Covid – siano di fatto le due facce della stessa medaglia.
Avrei potuto invitarvi a chiedere scusa al professor Cacciari, tramutato in modo interessato e un po’ vigliacco in avanguardia colta dei complottisti, mentre in realtà ci aveva soltanto visto più lungo degli altri. Come spesso gli è accaduto, di fatto. Invece, mi scuserete voi e i colleghi del Sussidiario, oggi vi parlerò di altro. E sarò breve. Tanto breve quanto meno diplomatico del solito. Quindi, alle soglie dell’istigazione a delinquere culturale e politica.
Martedì, mentre a reti unificate imperava l’onanismo ambientalista con centro di gravità permanente collocato a Glasgow, a Kabul un attentato al principale ospedale militare della città reclamava almeno altre 25 vite, oltre a una cinquantina di feriti. Sangue e membra sparse, altro che numeri al lotto sulle emissioni da qui a cinquanta o settanta anni. Ma di quel Paese non interessa più a nessuno. Sono finiti i bei tempi degli strepiti femministi sulla condizione di rinnovata schiavitù della donna sotto il regime talebano, ormai di Kabul e Kandahar sentiamo parlare solo quando va in onda l’ennesima replica di Rambo 3. Troppo lontano. E poi, così poco glamour rispetto a un G20. O, meglio ancora, a una COP26. Troppa miseria, malattie, povertà. E odio. Va bene d’estate, quando i tg sono vuoti e la politica ha i piedi a mollo.
Sembrava quasi che i talebani lo sapessero, quando hanno deciso di affondare il colpo e accelerare i tempi, conquistando la capitale a Ferragosto. Da allora, molta diplomazia ufficiale ma poca franchezza nel raccontare come davvero stanno le cose. Al netto della conferenza flop di Roma e di quella organizzata da Vladimir Putin, oscurata dall’Occidente per il solo fatto di essere stata organizzata dall’impresentabile zar, nessuno pare ritenere l’Afghanistan un problema. Neppure le barbe dei talebani e le loro esecuzioni di piazza fanno più tanto scandalo.
Ora, però, date un’occhiata a questo grafico, elaborazione di uno studio della Integrated Food Security Phase Classification, le cui risultanze sono state definite terrificanti dalla Fao.
Di fatto, l’85% degli afghani affronterà l’inverno ormai alle porte in uno stato di insicurezza alimentare, garbato eufemismo demoscopico con il quale si intende una cosa sola: la miseria. E, soprattutto, la fame. Onore al TG1, per una volta. Il suo servizio sulle famiglie di quel Paese costrette alla straziante scelta obbligata di vendere le figlie femmine per sfamare gli altri membri ha rappresentato un salutare pugno in faccia al nostro quieto vivere e al voyeurismo auto-assolutorio di chi guarda con il cuore in pezzi alla foresta amazzonica, ma sembra non generare una singola emozione di fronte a uno stupro collettivo di umanità. È facile dare la colpa al regime talebano per questa situazione, molto facile. Fa bene alla coscienza, la pettina e le mette anche la brillantina. Ma occorre dirsi le cose in faccia.
Primo, quanto accadrà nei mesi a venire, ha un colpevole principale. E si chiama Onu. Perché riempirsi la bocca di allarmi umanitari e bloccare unilateralmente tutti gli aiuti destinati all’Afghanistan, citando l’insicurezza generata dal regime change estivo, è qualcosa di letteralmente indegno. Pensano infatti che la Cina non andrà finanziariamente in soccorso di Kabul? Certo che lo farà. E certo che a New York lo sanno. Il problema è che a loro non interessano gli afghani che vendono le figlie per mangiare o che per disperazione accettano qualsiasi cosa, anche un futuro da kamikaze se questo porterà una ricompensa in denaro a chi resta, interessa avere una pistola fumante contro Pechino da tirare fuori al primo attentato fuori dal suolo afghano che si ricondurrà immediatamente al regime talebano. O al primo massacro interno o atto iconoclasta, questo sì debitamente reso virale dai social e dai media tradizionali, lanciando hashtag ad hoc e inondando gli schermi di orrore ad alto tasso di redditività politica. Il tutto tacendo sullo scandalo infinito dell’oro afghano detenuto negli Usa e lì rimasto confiscato a scopo cautelativo, tanto per mettere ulteriore pressione sui cattivi di turno.
Secondo, attenzione a fingere che l’Afghanistan sia soltanto l’ennesima appendice geopolitica di una guerra proxy che non ci interessa direttamente. Fiutata l’aria, la Cina ha dato il via libera alla costruzione di una base militare al confine tra Afghanistan e Tagikistan, destinata alle sue forze speciali. Situata nella provincia autonoma del Gorno-Badakhshan e attorniata dalla montagne del Pamir, l’installazione rappresenta quasi un unicum per la Cina, poiché rientra nel novero di scelte strategiche di penetrazione e permanenza su territori stranieri con forze d’élite.
Per capirne la portata, quanto in preparazione è assimilabile per importanza geopolitica alla scelta di aprire una base militare a Djibouti, al fine di contrastare direttamente la presenza Usa con Camp Lemonnier. E cosa ancora più importante, non solo il governo tagiko ha immediatamente approvato la mossa di Pechino ma ha rilanciato, offrendo l’annullamento di tutti i canoni di locazione per gli avamposti cinesi nel Paese, presenti e futuri, in cambio di aiuto e addestramento militare.
Se facendo crollare l’Afghanistan nuovamente sotto il giogo talebano con il suo sciagurato ritiro rappresentava la mossa del cavallo che Joe Biden intendeva compiere per mettere all’angolo la Cina, la realtà sta disvelandosi in maniera totalmente opposta. E pericolosamente opposta. Senza contare che, in contemporanea, molti governi dell’Asia centrale stanno garantendo luce verde anche a nuove e più strutturate presenze militari russe sempre a ridosso del confine afghano. Insomma, nel cuore della mitica Heartland, si stanno giocando veri e propri war games. Correva l’anno 1904, quando il geografo inglese Halford Mackinder pubblicò The geographical pivot of history, testo fondamentale della geopolitica moderna e chiave per intendere i passaggi obbligati delle politiche estere occidentali e del ruolo cardine dell’Eurasia. Oggi, l’Europa sembra non capire l’importanza esiziale di quanto stia accadendo a Kabul. Lo farà, una volta che l’inverno avrà reso la fame e la miseria insopportabili, quando i tg riceveranno l’ordine di accendere le telecamere per mostrare al mondo i cattivi. O quando i flussi migratori che premeranno sia sulla rotta balcanica che sui ricatti infiniti che si consumano ai confini della Turchia non tramuteranno un risiko geopolitico fondamentale in mero problema di ordine pubblico da sedare in qualche porto od hotspot.
Ora torniamo pure a ritenere la COP26 un appuntamento con la storia, se questo ci fa sentire meglio. Ma se questo grafico ci mostra come il bla bla scozzese stia avvenendo su temi pressoché fantascientifici, visto che ancora non si è dato corpo agli impegni contratti in COP09 e COP15, quel video del TG1 dovrebbe invece servirci da monito: stiamo lasciando che l’inferno prenda domicilio in terra, un’altra volta. Non lamentiamoci poi delle conseguenze.
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