Proviamo a ragionare a mente fredda sui cosiddetti mercati. Non ci crederete, ma, alla fine, i paralleli con la situazione paradossale che stiamo vivendo a livello politico e sociale da due anni a questa parte risulteranno addirittura inquietanti, per quanto sovrapponibili in modalità carta carbone. Partiamo da un grafico, il quale mostra l’ultimo rilevazione del Fear&Greed Index della CNN, il tracciatore in tempo reale dello stato d’animo del mercato. Quello azionario è quasi al massimo storico e l’indice dell’avidità, ovvero la propensione a investire, è nuovamente salito verso i livelli record recenti, quelli della grande ripresa tardo primaverile-estiva.
Sapete quando è stata scattata questa istantanea del mood imperante a Wall Street? Nel giorno in cui la Fed ha annunciato ufficialmente il taper, ovvero la riduzione immediata degli acquisti per 15 miliardi di controvalore al mese. Ora, mettiamo un po’ le cose in prospettiva: stante il cronoprogramma a scalare che si è posta, la Federal Reserve chiuderà del tutto la sua facility anti-pandemica il prossimo giugno. Ma c’è una cosa che il mercato sa e le opinioni pubbliche ignorano: che lo stato patrimoniale della Banca centrale Usa resterà comunque al suo record storico fino al maggio 2022, nonostante lo scale back degli acquisti. Insomma, si schiaccia un po’ il freno, ma continuando comunque ad andare a una velocità ben più sostenuta del limite. E, soprattutto, con una bella postilla che Jerome Powell ha sottolineato subito: il taper sarà flessibile, quindi i controvalori dei tagli potranno essere variati in tempo reale e in base alle esigenze. Insomma, si può aumentare la sforbiciata. Ma anche diminuirla. O annullarla del tutto, in caso qualche emergenza lungo il cammino lo renda necessario.
In compenso, la canea mediatica garantita dall’arrivo ufficiale del taper-Godot dopo almeno un semestre di annunci e minacce ha totalmente silenziato la parte realmente preoccupante del comunicato Fed e delle parole del suo numero uno alla stampa. Ovvero, il Pil reale degli Usa ha rallentato in maniera notevole, l’inflazione è dovuta a fattori non più definiti transitori, bensì ritenuti per la gran parte transitori e, soprattutto, le criticità sulla supply chain globale perdureranno per buona parte del 2022. Queste affermazioni le ha fatte Jerome Powell in persona: eppure, vi sfido a trovare un giornale o un tg che le abbia riportate. L’unica notizia? Il taglio degli acquisti, talmente noto e digerito da spedire il mood del mercato sulla Luna. Perché si temeva altro. Ovvero, ciò che proprio Jerome Powell ha cercato di scacciare via come un fantasma ingombrante fin dal suo arrivo nella sala: il rialzo dei tassi, la naturale conseguenza di una politica espansiva che va in graduale trend di normalizzazione e che, soprattutto, deve affrontare in contemporanea dinamiche dei prezzi e salariali in gran parte già fuori dal controllo.
Eh sì, perché il Qe perenne non fa danni soltanto pompando le valutazioni degli assets e quindi anche delle commodities. No, lo fa anche indirettamente. Quando la Fed inonda il sistema di liquidità e, in contemporanea, il Tesoro spedisce i redditi dei cittadini alle stelle con sussidi da record per contrastare la pandemia, l’effetto collaterale sul mondo del lavoro è duplice: sbilanciamento della dinamica di domanda e offerta e conseguente, drastico aumento dei salari medi per contrastare la propensione dei lavoratori a restare sul divano in attesa dell’assegno statale. Qualcosa di buono e positivo, certo. Ma anche in grado di operare da detonatore dell’inflazione, se la Banca centrale continua a stimolare il sistema in un contesto infiammabile di questo genere.
Esattamente ciò che ha fatto la Fed per mesi e mesi, gli stessi in cui ha agitato lo spettro del taper per evitare che si guardasse alla Luna dell’inflazione invece che al dito dei 15 miliardi di Treasuries e Mbs in meno al mese. Ecco, quindi, che il paradigma cambia. Ciò che fino a ieri era ritenuto uno stigma in grado di generare tsunami in Borsa e tantrum nei rendimenti obbligazionari, oggi è l’alleato che ci permette di nascondere il nuovo nemico, quello reale: chiodo scaccia chiodo. E stando alla reazione del mercato e dei media, la strategia ha funzionato alla perfezione. Tanto da essere applicabile ovunque.
Ad esempio, perché Christine Lagarde ha apertamente parlato di un programma di acquisti che proseguirà anche dopo il 31 marzo 2022, poiché frenare ora le politiche espansive minerebbe la ripresa? E perché, in tal senso, ha rotto gli indugi e annunciando che modi e tempi del Pepp-extra verranno presentati al board del 15-16 dicembre? Ovvero, perché ha atteso il 3 novembre e il suo discorso per i 175 anni della Banca del Portogallo e non lo ha annunciato sei giorni prima, al termine del Consiglio direttivo della Bce, sede naturale e più rituale? Cos’è successo nel corso di questo brevissimo arco temporale di così drammatico e game-changer?
Apparentemente, nulla. Quantomeno, sui mercati. Ci sono stati il G20 ed è iniziata la COP26, ma nulla che abbia direttamente a che fare con le Banche centrali e le loro politiche monetarie di contrasto alla pandemia. Qualcosa è successo, invece. Il nostro spread, causa redemptions Bce che nell’ultima settimana di ottobre hanno bruciato metà del controvalore totale di acquisti (16,6 miliardi lordi), ha mostrato al mondo una fiammata degna dell’estate 2011, ovviamente con le debite proporzioni. Di colpo, è passato dalla placida zona 105 punti base a oltre 130. Il Governo italiano? Non un fiato sull’argomento. La stampa? Allarmata solo dopo l’ultimo balzo di lunedì scorso. E, stranamente, tutta concentrata nel corredare la notizia con articoli sui primi tremori che stavano interessando i mutui a tasso fisso. Paura, insomma. Come quella generata per mesi dall’annuncio a salve del taper, in grado di tramutare il timore in assuefazione. Il nemico in alleato.
Detto fatto, casualmente dopo quello spoiler di paura sul debito sovrano causato dalla Bce che compra di meno, Christine Lagarde lancia il suo annuncio tranquillizzante. E il nostro differenziale sul Bund, nella giornata di mercoledì e in piena tensione da attesa per la Fed, si è sgonfiato come un soufflé mal riuscito a Masterchef. Il vaso di Pandora è stato scoperchiato, la monetizzazione strutturale del debito è ormai un’opzione sul tavolo. Prossimo passo? La revisione in senso meno rigorista del Patto di stabilità. Reazioni dei cosiddetti falchi? Nessuna. Stanno ancora digerendo l’addio di Jens Weidmann e facendo i conti con il record di decessi quotidiani da Covid in Germania.
Tutto rinviato al 15-16 dicembre, l’ultima uscita ufficiale proprio del Governatore della Bundesbank prima dell’addio. Avvelenerà il pozzo? Questa è l’unica domanda che vale davvero la pena porsi. Tutto il resto, come avrete notato, appartiene alla categoria della pantomima. E alla strategia della rana bollita.
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