A distanza di neanche un mese dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge che ha conferito la delega al governo per la riscrittura di buona parte del processo penale, sancendosi così la chiusura del primo round relativo alla riforma Cartabia, è già suonato il gong per l’avvio del secondo round.
Mentre infatti la ministra firmava il decreto che ha istituito le tre commissioni chiamate ad esercitare la delega conferita dal Parlamento, hanno subito iniziato a riecheggiare i primi squilli di tromba dalle fila dei dissenzienti. A suonare la carica è stato il dottor Di Matteo, consigliere del Csm, che dalle colonne de Il Fatto Quotidiano non ha esitato a bollare il progetto Cartabia come incostituzionale. Sebbene egli non abbia offerto particolari argomentazioni a supporto di un giudizio così tranciante, non è difficile immaginare che la principale doglianza riguardi l’introduzione della improcedibilità, ovvero la nuova regola che fissa dei termini per la celebrazione dei gradi di impugnazione successivi a quello di primo grado, trascorsi i quali il processo non potrà più proseguire.
Come più volte qui sottolineato, la norma, osteggiata fortemente anche dalla dottrina, nasce dalla impossibilità di rimuovere la sciagurata previsione, introdotta dall’ex ministro Bonafede, del blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. L’ibrida commistione fra prescrizione sostanziale, operante in primo grado, e quella processuale (denominata improcedibilità per mere ragioni di marketing elettorale) operante nei gradi successivi, appare senz’altro discutibile e ai limiti dell’irragionevolezza; pur tuttavia, è bene chiarirlo, essa risulta essere il frutto avvelenato dell’ancor più irragionevole blocco della prescrizione sostanziale che, elevato a vessillo da una delle componenti dell’attuale governo, non si è potuto in alcun modo cancellare.
Non a caso, la commissione che era stata istituita dalla ministra per la predisposizione del testo della legge delega aveva proposto proprio il superamento di quello sciagurato blocco della prescrizione, tornando al precedente meccanismo; proposta poi accantonata in sede di confronto politico nella commissione Giustizia.
La improcedibilità rappresenta quindi un escamotage, un compromesso al ribasso che, da un lato, è servito a non ammainare una delle poche bandiere rimaste alla forza politica vincitrice delle ultime elezioni parlamentari e, dall’altro, ha cercato di assicurare un minimo di riequilibrio a fronte della torsione inferta al sistema processuale dal blocco della prescrizione, che di fatto produceva un processo “senza fine” nei gradi di impugnazione.
Quella parte della magistratura schierata contro l’innovazione introdotta dalla riforma Cartabia dovrebbe quindi ben contestualizzare la genesi dell’improcedibilità, facendo propria la battaglia che la comunità scientifica degli studiosi del processo penale ha abbracciato per la reintroduzione della prescrizione sostanziale. Che la improcedibilità, così come congegnata, si esponga a notevoli criticità, qui non facilmente sintetizzabili, è quindi un dato acquisito. Ma che essa sia necessaria, ove non si riesca a riportare all’originario equilibrio il sistema processuale, è una constatazione difficilmente confutabile.
Di tali considerazioni invece non si trova traccia negli strali del dottor Di Matteo, il quale si duole altresì del clima da caccia alle streghe che si respira contro la magistratura e che sfocia nel tentativo di dilatarne i profili di responsabilità civile e disciplinare. Pur riconoscendo le nefaste dinamiche che hanno caratterizzato gli ultimi anni della categoria cui appartiene, la posizione che assume Di Matteo, e con lui una buona parte dei suoi colleghi, appare di estrema retroguardia. Non riconoscere che il sistema della responsabilità civile e disciplinare della magistratura (ovvero dell’unico organo dello Stato che giustamente è dotato della garanzia dell’auto-governo) sia risultato fallimentare, costituisce un grave errore di valutazione che sancisce la distanza con il paese reale.
Le storture della gestione delle carriere dei magistrati che lo scandalo Palamara ha messo in luce, oltre a rappresentare fattispecie di reato (ancora inspiegabilmente non esplorate, per quanto sia dato sapere), sono espressione inequivocabile dell’abuso che l’autogoverno ha prodotto. Se è comprensibile che si possa temere la sottoposizione della magistratura inquirente al governo, che chi scrive certamente non auspica, non si può non riconoscere che negli ultimi decenni le nomine e le progressioni di carriera della categoria poco hanno avuto a che vedere con il merito, essendo al contrario completamente affidate all’appartenenza o meno al sistema correntizio.
Viene allora spontaneo chiedersi come mai il dottor Di Matteo, per il quale, sia chiaro, si nutre il rispetto che si deve a un servitore dello Stato, la cui vita è costantemente esposta a rischio e per questo da anni scortata, non evidenzi la percentuale dei magistrati che hanno ricevuto valutazioni di professionalità negative con conseguente mancata progressione di carriera. Ovvero, quanti concorsi a cariche direttive o semi direttive hanno davvero premiato il merito.
Il processo, giova ricordarlo sempre, resta il luogo delle garanzie in cui si è chiamati a valutare se uno o più specifici fatti costituiscano o meno fattispecie penalmente rilevanti. Al contrario si continua troppo diffusamente a interpretare la magistratura come un organo deputato a contrastare fenomeni delinquenziali e, in coerenza con tale approccio, il processo rappresenta il tempio in cui consumare il sacrificio dei peccatori.
La riforma in discussione convince poco su taluni temi, ma offre anche diversi spunti di interesse per le soluzioni proposte. La lente attraverso cui analizzare le proposte in discussione dovrebbe comunque essere quella volta a verificare se la riforma metta a rischio o meno le tutele difensive. Nel perseguire l’imprescindibile riduzione dei tempi processuali, oggettivamente intollerabili, non bisogna dimenticare che quando si parla di efficienza del processo sono sempre le garanzie ad esser messe in pericolo. Nessuno vuole un processo che garantisca impunità per eccesso di farraginosità, ma al contempo non si deve mai dimenticare che dietro ogni processo si cela la vita di una persona, che già per il solo fatto di essere imputato subisce una condanna. Persona che fino alla sentenza definitiva è, per previsione costituzionale, un presunto non colpevole.
Senza eccedere in tecnicismi, a fronte dei nodi da sciogliere in sede di esecuzione della delega conferita dal Parlamento al governo, è certamente un bene che si sviluppi un confronto ampio e privo di pregiudizi. Oltre i magistrati, lo invocano avvocati e professori universitari.
Non bisogna tuttavia dimenticare che ancora più delicata e decisiva per il buon funzionamento della macchina processuale resta la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Non ci sono solo in ballo gli impegni presi con l’Europa e la più che imprescindibile contrazione dei tempi di durata del processo. Il principale compito, assai poco invidiabile, della ministra e del governo è soprattutto quello di riuscire a ridare autorevolezza e credibilità a un sistema malato come quello della giustizia che, nonostante tutto, in alcuni suoi componenti non sembra aver ancora acquisito piena e reale coscienza del baratro in cui è sprofondato.
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