Il dibattito è stato innescato recentemente dal ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti (Lega) sostenendo che se il premier Mario Draghi andasse alla presidenza della Repubblica potrebbe comunque seguire il governo. Cioè, nei fatti si configurerebbe una specie di semipresidenzialismo senza però passare da riforme costituzionali.
La discussione è in corso con sostenitori illustri ma in ordine sparso: ne parlano il ministro Renato Brunetta nel centrodestra e a sinistra l’ex vicepresidente del Senato Cesare Salvi.
Ma non è chiaro se questa contesa riuscirà ad avere uno sbocco e traini i partiti che poi a febbraio dovrebbero eleggere Draghi al Quirinale. Né all’estero sembra che capiscano la differenza tra avere Draghi al Quirinale anziché a Palazzo Chigi e quindi non si sa se si schiereranno per tale scelta.
I parlamentari sembrano avere un’esigenza primaria, mantenere il proprio posto fino alla maturazione del vitalizio (settembre 2022) e pare che i partiti mal sopportino il decisionismo del presidente del Consiglio il quale decide, dicono, senza cercare consenso, senza “preparare il terreno”.
La scelta di Draghi al Quirinale avvicinerebbe la possibilità delle elezioni anticipate e indebolirebbe ulteriormente i partiti, perché di fatto si configura appunto come un semipresidenzialismo. I partiti almeno oggi non sembrano volerlo, anche se non è chiaro cosa penseranno fra tre mesi.
Oggi il M5s guidato da Giuseppe Conte e il Pd di Enrico Letta, pur in maggioranza, non sono entusiasti sostenitori dell’azione di governo. Nella Lega, Giorgetti è convinto sostenitore di Draghi, mentre Salvini appare più critico. Forza Italia è con il premier, Fratelli d’Italia è all’opposizione ma pare incerta su cosa votare al Quirinale.
Inoltre i plausi pubblici elargiti a mani piene in Italia sono spesso indice preoccupante della vecchia pratica “promuoverlo per rimuoverlo”.
Sulla carta quindi, oggi almeno, non si vede la maggioranza per Draghi o essa pare molto risicata, cosa che danneggerebbe dal principio una scelta tanto importante in un momento così delicato.
Ma se non è Draghi, chi potrebbe essere allora il presidente? L’attuale capo del governo ha una forte personalità e robusti sostegni in Italia e all’estero; se ci fosse un neopresidente al posto di Mattarella, egli cadrebbe nei fatti sotto il peso oggettivo della personalità e del prestigio, interno ed esterno, di Draghi. Draghi avrebbe nei fatti più potere. Proprio ciò che molti partiti non vogliono, poiché già mal sopportano l’attuale potere del premier.
Il semipresidenzialismo uscito dalla porta rientrerebbe dalla finestra.
In questa incertezza e fluidità totale, dove solo FdI vuole le elezioni anticipate, la soluzione più tipica italiana, come Stefano Folli ripete da mesi, è un congelamento della situazione. Ciò almeno fino alle elezioni a scadenza naturale della legislatura, cioè marzo 2023.
La cosa avrebbe vari meriti. Questo parlamento non è lontanamente rappresentativo della realtà del paese. Per esempio il M5s, oggi al 33%, potrebbe prendere la metà o meno, Fratelli d’Italia invece ora sarebbe probabilmente il primo partito. Ma nelle oscillazioni continue, può darsi che la situazione tra un anno muti ancora radicalmente. Poi con quale legge elettorale si andrà al voto? Con quella di oggi o si cambierà? E come?
Quindi la situazione fra 16 mesi potrebbe essere molto diversa da quella attuale. Perciò può essere giusto che Mattarella allunghi il suo mandato di uno-due anni e il prossimo parlamento, più vicino alla realtà del paese, scelga il nuovo presidente.
Mattarella ha dovuto gestire una realtà estremamente difficile. Questo parlamento si presentava con due forze che si dichiaravano eversive del sistema, il M5s e la Lega. I Cinquestelle volevano aprire le istituzioni come una scatoletta di tonno, e la Lega ha cavalcato a lungo una retorica radicale sul tema delicato dell’immigrazione. Oggi entrambi i partiti sono più normali. Questo è un bene per le istituzioni ed è anche merito di Mattarella.
Inoltre la situazione internazionale è ancora più fluida. Si staglia la realtà di uno scontro tra Usa e Cina in cui l’Italia, volente o nolente, sarà risucchiata e dove c’è poca preparazione. È uno scenario totalmente nuovo, che non si sa bene che conseguenze porterà all’Italia.
Inoltre anche nella Ue le situazioni si complicano. In Germania il ministero delle Finanze dovrebbe andare a un liberale, il partito che è più attento alla disciplina finanziaria. Con il Covid in diminuzione l’anno prossimo potrebbe cominciare ad avvicinarsi l’orizzonte della restituzione del debito. Il parametro attuale del 60% del rapporto debito-Pil sarà probabilmente cambiato. Ma anche se si andasse a un rapporto 100% debito-Pil, l’Italia è fuori, avendo un debito pari al 160% del Pil. Ciò implica che le riforme patteggiate con la Ue dovranno procedere a passo molto spedito e anche qui non si conoscono le conseguenze.
Se a questo si aggiunge un rimescolamento politico in Italia, quando i partiti sono ancora con proposte politiche deboli e molto incerte, tutto rischia di saltare.
In un momento così drammatico, difficilissimo, allora la scelta più facile potrebbe essere proprio congelare gli equilibri attuali.
Ma ciò non è certo, proprio perché tutto è in movimento e fino all’ultimo la scelta per il Quirinale potrebbe rivelare sorprese.
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