Com’è Bologna in questi mesi, vista da Boston? Vengono in mente alcuni versi: “Mi sono familiari le piazze, il rosso profilo delle torri, / all’orizzonte la collina col santuario. E le persone che incontro / parlano la mia lingua: se fermo un passante / posso chiedere ed ottenere risposta. / Perché dunque mi sento in esilio? E perché dietro ogni volto che sfioro / c’è un’anima che, come la mia, si ritiene straniera?”.
Certo, qui si sente un’iperbole tipicamente poetica, perché “esilio” è una parola forse un po’ troppo forte. D’altra parte, la voce che parla in quel testo è quella di una poetessa fiorentina di passaggio a Bologna, la quale sta commemorando la strage alla Stazione Centrale del 2 agosto 1980, e scrive appunto a ridosso di quell’evento.
Bisogna dunque mantenere il senso delle proporzioni e della storia, quando si parla della situazione di oggi. Eppure: questo senso di disagio, di estraniamento, di alienazione – diciamo pure, il senso di essere un po’ stranieri nella propria città natale – serpeggia ancora tra i bolognesi (sia quelli che vi hanno trascorso la vita, sia quelli che ci ripassano regolarmente, provenienti da varie residenze all’estero); e non è più un’eco del massacro di una quarantina d’anni or sono. È qualcosa di più sottile, di più semplice e prosaico; ma ciò non vuol dire che non sia significativo, tutt’altro.
Torniamo a Boston per chiarire lo sfondo di questo disagio. A parte naturalmente il grosso titolo in occasione della già ricordata strage alla stazione, ci sono state (salvo errore) soltanto due occasioni in cui Bologna sia apparsa in tempi recenti sulla prima pagina del New York Times (più autorevole del Boston Globe) in seguito a un evento politico: il 28 giugno 1999, con la notizia che Giorgio Guazzaloca aveva vinto al ballottaggio ed era divenuto primo cittadino di Bologna come primo sindaco non di sinistra nella storia della città in più di mezzo secolo; e il 20 marzo 2002, quando la notizia fu che Marco Biagi, professore di diritto del lavoro, era stato assassinato davanti alla sua casa bolognese dalla Nuove Brigate Rosse, in odio al suo moderato progetto di riforma di alcuni aspetti della legislazione sociale nel paese.
È vero che tanti altri eventi interessanti erano accaduti negli anni (prima, durante e dopo), per gli abitanti di questa grande città di provincia. Ma la scelta del quotidiano newyorchese era fondamentalmente azzeccata. L’assassinio di Biagi infatti è stato un’ulteriore riprova (se mai ce ne fosse stato bisogno) che il cliché intriso di degnazione su Bologna come città bonaria e allegrotta è sempre stato falso. E l’elezione di Guazzaloca avrebbe potuto segnare l’inizio di una civiltà dell’alternanza (cioè, di una civiltà moderna) nella politica bolognese; ma come tutti sanno (e come l’ottobre scorso ha confermato) ciò non è accaduto, e quel caso è stato il primo e l’ultimo nella storia di Bologna fino a tutt’oggi.
I governi cittadini, “sotto il rosso profilo delle torri”, sono stati prima comunisti, poi post-comunisti, poi progressisti. Ma la “Ditta”, come qualcuno l’ha chiamata, è sostanzialmente sempre quella. “Bologna come città più progressista d’Italia” è stato lo slogan con cui il giovane sindaco è appena giunto alla vittoria: una definizione rigorosamente vuota di contenuto, che promette di continuare un regime politico in cui il colore grigio ha da tempo sostituito il rosso.
Un grigiore monolitico, e come tale, soffocante. Ogni regime politico privo di alternanza toglie fiato alla vita cittadina: vi si respira un’aria un po’ viziata. Ecco la radice del disagio di cui si parlava all’inizio … “E perché dietro ogni volto che sfioro / c’è un’anima che, come la mia, si ritiene straniera?”.
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