In Etiopia sta arrivando la resa dei conti tra le forze del governo centralista di Abiy Ahmed e le milizie etniche del Tigray. Che nel frattempo hanno anche costituito un fronte unitario di gruppi etnici e formazioni politiche che hanno l’intenzione di abbattere l’attuale governo. Sono nove i gruppi di opposizione che hanno annunciato la costituzione di un’alleanza, denominata Fronte Unito delle Forze Federaliste e Confederate di Etiopia. La paura è che, se Ahmed non dovesse cedere in qualche modo alle rivendicazioni, si possa arrivare a un attacco militare alla capitale Addis Abeba, che porterebbe inevitabilmente a un bagno di sangue. “La speranza è che si trovi il modo di dialogare” ci ha detto Mussie Zerai, sacerdote eritreo che vive in Italia e dal 1995 si occupa di migranti e di rifugiati politici dall’Eritrea e dall’Etiopia, “la prospettiva di un disfacimento dell’Etiopia come Stato unitario porterebbe a conseguenze devastanti, a un disastro umanitario”. In questo scenario l’unica voce forte a livello internazionale che si è levata per chiedere l’avvio di un dialogo è come sempre quella del Papa, che ha invitato tutti alla preghiera per quelle “popolazioni così duramente provate” rinnovando il suo appello “affinché prevalgano la concordia fraterna e la via pacifica del dialogo”.
La nascita di questo Fronte unitario contro il governo centrale dell’Etiopia può portare, secondo lei, al disfacimento del paese?
Non credo. Penso sarà fatto un tentativo di conservare l’attuale Costituzione, che sancisce un federalismo etnico.
Però sembra proprio che il tentativo del modello centralista e nazionalista di Abiy Ahmed sia fallito, o no?
E’ quello che sembra. Se questa situazione andrà avanti, se questa coalizione che appoggia le milizie che stanno avanzando proseguirà, vorrà dire che il suo disegno di stato centralizzato e unitario sta fallendo.
Questo tentativo era giustificato? La divisione fra etnie è sempre stato il problema maggiore dell’Etiopia, non crede?
Questo tentativo non ha aiutato un paese che è ancora economicamente povero e che non ha risorse sufficienti per accontentare le richieste che arrivano dai vari stati. Il processo era molto lento e conflittuale. Tutto questo ha spinto a cercare di centralizzare tutto, ma dopo più di vent’anni che era stato avviato questo processo tornare indietro sarebbe complicato.
Forse Ahmed ha sbagliato a rispondere con la forza alle richieste del Tigray. Un dialogo sarebbe stato più opportuno?
Certamente, l’uso della forza comunque è sbagliato da ambedue le parti. Dovevano dialogare, a un problema politico si trova una soluzione politica, non certo con le armi. L’uso della forza ha radicalizzato tutto, si sono contati migliaia di morti, abbiamo assistito a violenze inaudite. Tutto questo ha incancrenito le posizioni e adesso sarà difficile trovare una soluzione.
Il Tigray sembra voglia tenere un referendum per dichiarare l’indipendenza. Crede sarà possibile?
Sull’onda della rabbia tutto è possibile, poi però bisogna ragionare sui fatti. Un Tigray indipendente deve fare i conti con vicini come l’Eritrea e con quello che resterebbe dell’Etiopia. Sarebbe meglio ragionare e trovare la soluzione migliore per il bene di tutto il popolo, non si può pensare solo ai vantaggi di un solo gruppo di persone.
Quale problema creerebbe all’Eritrea un Tigray indipendente?
Siamo confinanti, abbiamo la stessa lingua, le stesse tradizioni e culture, molte famiglie sono unite tramite matrimoni. Ci sono più cose in comune di quelle che ci dividono. Se però il Tigray diventa indipendente, perde lo sbocco al mare. Visto che il confine con il Sudan è causa di rivendicazioni di vari gruppi etnici, si sentirebbero circondati e obbligati a trovare degli sbocchi e questo potrebbe scatenare altre guerra, in primis proprio con l’Eritrea.
A livello internazionale solo il Papa sembra alzare la voce per chiedere l’avvio di un dialogo. Lei pensa che la sua richiesta verrà ascoltata in Etiopia?
In questo momento, dove prevale la guerra, non so quanto sia ascoltata, so che comunque quanto ha detto è stato ripreso da diversi notiziari in Etiopia, qualcosa è dunque arrivato. Spero che dal semplice ascolto si passi a una azione concreta per cercare la via di uscita politica e diplomatica.
Come in Siria la voce del Papa è quella più forte.
Sì. In Etiopia nei giorni scorsi è venuto l’inviato degli Usa, non sappiamo cosa abbia prodotto questa visita. Si registrano anche i tentativi di alcuni paesi africani guidati dall’Uganda, speriamo che portino a qualcosa di concreto per non aumentare ulteriormente il numero dei morti. Sono già abbastanza.
E il problema dei profughi?
Anche quello è un problema gravissimo. Se peggiora la situazione, gli eritrei, i sudanesi e i somali che si erano rifugiati in Etiopia dovranno cercare un altro paese, gli stessi etiopi aumenteranno il flusso in uscita e sarebbe un disastro umanitario. Il Tigray sta già soffrendo per la carestia e il blocco degli aiuti umanitari. Più di 400mila persone, ed è una stima per difetto, sono alla fame.
(Paolo Vites)
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