“La caduta del muro” come simbolo dei nostri tempi, la separazione netta tra “muri e ponti” e poi ancora la retorica delle “Germania unite” come segno dell’unità dell’Europa: non ce ne vogliate, sono tutti elementi pregni di significato e dall’indubbio valore storico e culturale. Eppure oggi, 9 novembre 2021, si celebra una commemorazione molto particolare e – diciamocelo – anche un po’ snobbata dalla stampa e opinione pubblica italiana: nella notte di 32 anni fa veniva abbattuto letteralmente il Muro di Berlino, uno dei momenti più alti di libertà dopo 28 lunghissimi anni di dittatura e repressione del regime comunista URSS e della sua propaggine nella Germania dell’Est nota come DDR.
In termini storici, il muro che circondava Berlino Ovest e che aveva diviso in due la città di Berlino dal 13 agosto 1961, crollò il 9 novembre 1989, giorno in cui il governo tedesco-orientale si vide costretto a decretare la riapertura delle frontiere con la Repubblica Federale (Germania dell’Ovest). «Sopportare questa ambivalenza, custodire luce e ombra, gioia e tristezza nel cuore, fa parte dell’essere tedeschi», ha ricordato oggi davanti alla parte ancora eretta del muro verso Berlino Est il Presidente della Repubblica Steinmeier. Eppure quell’ambivalenza scaturita da una doppia folle ideologia (prima il Nazifascismo che generò la Seconda Guerra Mondiale, poi appunto il comunismo che si oppose con la “cortina di ferro” alla NATO occidentale) spesso viene “dimenticata” per far posto ad una retorica, sinceramente, un po’ vuota e ingiusta nel fissare cosa fu davvero quel Muro per milioni di cittadini innocenti.
PAPA GIOVANNI PAOLO II E LA CADUTA DEL MURO DI BERLINO
Eppure basterebbe riguardare le immagini di quella notte per capire quale fosse la vera chiave di lettura di quella caduta: non l’ideologia, non lo scontro, non la retorica e nemmeno la politica. No, qualcosa veniva prima: nella notte del Muro di Berlino abbattuto, si urla “libertà” e ci si abbraccia, anche fra parenti costretti a vivere divisi per decenni. La libertà è quanto più contraddistingue l’umana natura e l’umana esistenza: quella libertà negata a milioni di tedeschi così come per tutti i cittadini sovietici che sotto la “rivoluzione comunista” patirono il più lungo e infame totalitarismo della storia del Novecento. Una figura su tutte si “stagliò” in quegli anni di lenta ma costante erosione del “muro” che sovrastava l’Europa: «Il Santo Padre Giovanni Paolo II ha riconosciuto quei eventi come una delle rivoluzioni più grandi nella storia. Dalla prospettiva della fede li ha considerati un intervento divino, una grazia. Perciò il Papa avrebbe detto a uno dei vescovi “Non è grazie a me. È opera di Maria, come ha annunciato a Fatima e a Medjugorje”»: così il ricorda cardinale Dziwisz, ex segretario personale del Santo Karol Wojtyla. Fu proprio il Papa polacco a rappresentare una delle figure principali per il “disgelo” tra Occidente e Oriente, unendo con il suo messaggio “rivoluzionario” incentrato non sul Capitale o sul Capitalismo ma sul semplice Vangelo di Cristo. «La porta di Brandeburgo – affermò San Giovanni Paolo II il 23 giugno 1996 a Berlino – è stata occupata da due dittature tedesche. Ai dittatori nazionalsocialisti serviva da imponente scenario per le parate e le fiaccolate. E’ stata murata dai tiranni comunisti. Poiché avevano paura della libertà gli ideologi trasformarono una porta in un muro». Il Santo Padre che seppe unire da umile protagonista aveva un giudizio molto netto su cosa fosse e quali rischi avesse il comunismo, nello stesso modo come lo aveva sulla minaccia nazifascista: da polacco le aveva subite e sofferte entrambe quelle ideologie e non aveva il timore di ribadirlo, neanche se la “cultura dominante” tentava (tenta tutt’oggi) di differenziare nella loro estrema gravità: «Io non dubito – aveva detto Wojtyla nel 1987 – delle buone intenzioni (del marxismo, ndr), però le buone intenzioni devono essere come in ogni atto umano ben sincronizzate con il bene oggettivo, con la oggettività, cioè con la verità. E invece tutti coloro che questo sistema totalitario ha toccato in un modo o nell’altro – affermò il 10 gennaio 1992, parlando al Pontificio consiglio per la cultura – i suoi responsabili e i suoi partigiani come i suoi più irriducibili oppositori, sono divenute sue vittime»,