In un paese che in troppi campi pecca di memoria corta, l’arrivo del Covid è sembrato un evento senza precedenti. Che il virus sia riuscito a coglierci di sorpresa e a mettere in ginocchio l’Italia (e non solo), è un fatto evidente agli occhi di tutti, ma questa pandemia non è stata la prima a infierire sull’Italia del secondo dopoguerra. Nel 1957 l’Asiatica e nel 1969 l’Influenza di Hong Kong hanno provocato complessivamente circa 50mila decessi, eppure non sembrano aver lasciato grandi cicatrici nella nostra storia.
Perché, allora, la società italiana di oggi ha reagito in modo così diverso? Perché la gran parte dell’opinione pubblica ha accettato, quasi supinamente, lockdown e gravi e prolungate restrizioni alle libertà personali? Che segni lascerà sul tessuto istituzionale, economico, sociale e personale il passaggio della pandemia? Dopo il Covid, quando non tutto sarà più come prima, sarà possibile ricostruire un paese meno fragile? Riusciremo a uscire da questa apnea collettiva? Sono tutte domande a cui Salvatore Abbruzzese, ordinario di Sociologia dei processi culturali e Sociologia della religione nel Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Trento, ha cercato di dare risposta nel suo recentissimo libro Società in cerca di respiro. L’Italia e le pandemie (Morcelliana Scholé, 2021).
Perché lei parla di “una società in cerca di respiro”, come se con il Covid fosse entrata in una sorta di apnea?
I primi tempi della pandemia sono stati segnati da un indubbio ottimismo. Le dichiarazioni dei politici e degli amministratori, i canti sul balcone, la pubblicità di una vita casalinga allietata dalle connessioni telematiche e dalle attività culinarie hanno strutturato una narrazione a lieto fine, che si è fatta sempre meno credibile con il silenzio dei lockdown, la chiusura delle scuole, quella dei teatri e dei musei che hanno tolto il respiro alle città. Con quei portoni chiusi siamo andati tutti in apnea.
Il disastro del Covid, dei lockdown, del confinamento che danni diretti e indiretti ha già fatto e sta ancora facendo?
Anche al di là del disastro economico che, ai gradini più bassi della scala sociale, ha significato per molti la perdita netta di quel poco che riuscivano a guadagnare, i danni sono innumerevoli.
Per esempio?
Sul piano sanitario, oltre alla morte di più di trecento tra medici e operatori, una vera e propria Caporetto, va registrata l’onda lunga di tutti i pazienti con altre patologie che, proprio per avere visto interrotte le cure hanno perso la vita o sono stati messi in serio pericolo. Sul piano scolastico abbiamo centinaia di migliaia di studenti che hanno sprecato oltre un anno di studio, a causa della Dad, e che vedono aggravarsi le già scarse competenze attestate dai test Invalsi.
Questo a livello di comunità. E sui singoli?
Sul piano della vita dei singoli si sono moltiplicati i casi di depressione, si è registrato il raddoppio del consumo di bevande alcoliche e, più in generale, sono saliti i livelli di stress. La stessa percentuale più elevata di morti sul lavoro rispetto all’anno precedente è rivelatrice di un grave stato di disagio.
Quali modifiche strutturali lascerà la pandemia sul nostro assetto politico, istituzionale e sociale?
Sul piano politico e istituzionale si colgono i segnali più rilevanti. Cresce l’insoddisfazione per un sistema parlamentare che non è riuscito a portare fuori l’Italia dalla crisi endemica che affligge il nostro Paese da vent’anni. Sono in tanti a prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di un mutamento dell’intero apparato istituzionale, compreso il sistema elettorale. Sul piano sociale le chiusure ci hanno consentito invece di cogliere, finalmente, l’importanza di quanto non solo le scuole, ma anche i teatri, i musei, le biblioteche e i luoghi di culto costituiscano l’infrastruttura morale di un’identità condivisa, quella che, inserendoci in una consapevolezza esistenziale e culturale, ci salva dalla banalità di una vita da idioti.
“Le reazioni alle pandemie sono sensori rilevatori delle caratteristiche esistenziali emergenti in ogni singola società”. Perché in questa pandemia, a differenza dell’asiatica nel 1957 o di quella di Hong Kong del 1969, la paura del virus ha prevalso su tutto il resto, provocando angoscia collettiva, tuttora ancora difficile da scalfire in profondità?
Gli anni Cinquanta e Sessanta si collocano esattamente all’opposto dello scenario attuale. Come ho mostrato nel mio libro, dove ho ricostruito il percorso culturale degli italiani dal dopoguerra in poi, il futuro era percepito in quegli anni con grande positività e un intero universo di giovani viveva nella convinzione di poter raggiungere un benessere concretamente realizzabile.
Oggi invece?
Prevale l’angoscia per almeno tre fondamentali ragioni, due delle quali sono pienamente ragionevoli. In primo luogo, siamo una società molto più fragile sul piano sanitario di quanto non lo fossero quelle del 1957 e del 1969: oggi la popolazione ultra-ottantenne, quella potenzialmente più esposta, si è quadruplicata, passando da meno di un milione a oltre quattro milioni. In secondo luogo, proprio a causa del ristagno economico e morale, siamo una società in cui quanti hanno un progetto di vita sul quale stanno investendo tempo e risorse sono in netta minoranza rispetto a quanti vivono accampati sul presente. Siamo, cioè, in quella “società signorile di massa” che Luca Ricolfi ha ben descritto nel 2019, nella quale gli inattivi prevalgono di molto sugli attivi. Quando il presente prevale sul futuro e quest’ultimo si fa evanescente, ci sono tutte le ragioni del mondo per vedere nella conservazione della propria salute la prima delle preoccupazioni.
La terza ragione investe forse la classe politica e il mondo dell’informazione, che non escono bene da questa prova? E perché?
Sì. È proprio questa la terza ragione – la meno ragionevole – del prevalere della paura su tutto il resto. La scelta delle autorità, sanitarie e politiche, di allarmare il più possibile la popolazione, dando i dati dei decessi in cifre assolute e mai in percentuale, comunicando il numero dei morti e mai quello dei guariti e dei dimessi dagli ospedali, ventilando nuove ondate e nuove chiusure prima ancora che vi siano elementi concreti, ha trovato nell’informazione un utile “braccio secolare”. Le autorità hanno fatto ricorso all’apprensione come arma di convincimento di massa, ritenendo questo come l’unico metodo per convincere la popolazione ad adottare i protocolli di sicurezza prima e a vaccinarsi poi.
Con quali esiti?
Tutto ciò ha prodotto un parossismo che si rivelerà ben difficile da recuperare quando si tratterà di rilanciare le attività e di edificare i progetti di vita personale. Non vedo la benché minima consapevolezza – tanto nell’universo politico quanto in quello dell’informazione – di quanto un tale modello di comunicazione, alimentando la paura, rischi di rendere la situazione presente ingovernabile, in quanto dove non c’è futuro la rivolta è dietro l’angolo.
Anche la scienza durante la pandemia non ha dato bella mostra di sé, non crede?
Sia la politica, sia il mondo dell’informazione hanno subìto la sconcertane sorpresa di imbattersi in una comunità scientifica dove, pur essendovi persone di indubbio valore, ciascuno di questi trova tra i propri colleghi oppositori altrettanto autorevoli. Di fatto si è manifestata l’assenza di una personalità che goda di un consenso unanime. Segreterie dei partiti e redazioni dei giornali sono state pertanto travolte dalla discordanza e dalla non unanimità delle valutazioni provenienti dal mondo scientifico al quale si erano rivolte.
La pandemia sembra dunque aver prosciugato la fiducia nel futuro. Su quali basi allora si può ricostruire la speranza o la convinzione in un futuro migliore?
Ovviamente non basterà tornare allo status quo ante dell’Italia del pre-Covid, già fanalino di coda dell’Europa. Occorre una nuova partenza per la quale sono necessarie alcune significative “rivoluzioni copernicane”.
Può citarne alcune?
Brillano certamente le indicazioni già segnalate da più parti: meritocrazia nelle selezioni, competenza nelle direzioni, sussidiarietà nelle collettività locali. Ma un simile risultato non è realizzabile se prima non si è ricostruito un patto fiduciario e non si è recuperata un’identità collettiva di ciò che si è, accanto a una consapevolezza storica del molto che è stato costruito nel passato. Se negli anni Cinquanta questo patto fu politico, oggi questo non può riprodursi che a condizione di essere anche un patto morale e civile al tempo stesso.
E su quali presupposti deve fondarsi?
Si deve partire da una consapevolezza di ciò che si è e della storia della quale si è eredi. L’insistenza con la quale sia il presidente del Consiglio sia quello della Repubblica hanno sollecitato a muoversi in questa direzione, costruendo intorno alla memoria della prima ondata pandemica – la più grave – un’occasione di consapevolezza identitaria, è il primo dei gradini di una riconsiderazione etica e civile sulla quale realtà come il Meeting di Rimini si sono attivate da anni, ma che è ancora tutta da costruire nel resto del Paese.
(Marco Biscella)
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