Dunque è successo: Samantha D’Incà adesso può essere lasciata morire. Lo ha deciso il tribunale di Belluno, nominando il padre di Samantha amministratore di sostegno della trentunenne. In questa veste l’uomo può dunque avviare le pratiche perché l’alimentazione artificiale cui è sottoposta la giovane sia interrotta. Il dolore della famiglia D’Incà è stato ascoltato, la loro convinzione di interpretare la volontà di Samantha è stata accolta, la certezza profonda di aver ormai già salutato una figlia o una sorella è stata rispettata.
Ma proviamo a guardare questa vicenda da un’altra prospettiva, da un’angolatura che ci permetta di cogliere anche elementi che ad un primo sguardo – magari ideologico – non intravediamo.
Esiste qualcos’altro oltre il dolore e lo strazio di quella famiglia? Esiste qualcos’altro oltre il mistero di quel corpo, apparentemente privo di quella vita così come comunemente è intesa? Esiste qualcos’altro oltre il sacchetto della peg che quotidianamente nutre Samantha?
Sì, esiste lei, il suo respiro, la sua vita. Samantha non è l’appendice di una macchina, ma un volto, una storia, una domanda. A quello che le è successo si può rispondere congedandola oppure accompagnandola, restando con lei senza imporle nulla, nemmeno i nostri tempi o la nostra misura.
C’è un altro sguardo con cui è sempre possibile guardare la realtà, è lo sguardo della presenza, di chi riconosce l’imponente presenza dell’altro e sceglie il silenzio, opta per il Mistero. Il signor d’Incà è stato nominato amministratore di sostegno perché esiste ancora qualcuno da sostenere. Nessuno può comprendere l’abisso del suo cuore, ma quell’abisso può riposare solo nel cuore della figlia, nell’affermazione ultima che nella vita c’è sempre la speranza, c’è sempre un’ultima, indomita e inattesa, possibilità.
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