Se la terza dose del vaccino anti-Covid è ormai una realtà acclarata, non mancano le discussioni sull’opportunità di anticipare la somministrazione a cinque mesi di distanza dalla seconda dose anziché a sei, come inizialmente previsto. E’ quanto stanno già facendo paesi come il Regno Unito, dove si assiste a una pandemia in forte crescita. Secondo diversi esperti, come il primario di Infettivologia al Policlinico di Tor Vergata e direttore scientifico della Società di malattie infettive e tropicali, Massimo Andreoni, “cambiare le regole in corso d’opera non è mai una buona cosa anche perché si potrebbe fare una terza dose a persone che hanno una risposta anticorpale ancora elevata”.
Invece secondo Antonio Clavenna, ricercatore presso il Dipartimento di Sanità pubblica dell’Istituto Mario Negri di Milano, da noi intervistato, “studi effettuati hanno dimostrato la riduzione dell’efficacia di contrarre il rischio di infezione a partire da quattro-cinque mesi dal vaccino. In futuro si andrà verso un tipo di vaccinazione simile a quella anti-influenzale, scegliendo le categorie a rischio per un obbligo vaccinale continuo e lasciando agli altri la libertà di decidere”.
Ci si sta avviando verso una vaccinazione anticipata a cinque mesi invece che ai sei previsti inizialmente. È giusto, secondo lei? Non si corre il rischio che le persone abbiano ancora una risposta anticorpale elevata?
La scelta dei sei mesi non è stata dettata da ragioni basate sull’andamento degli anticorpi o altro, ma è una scelta di opportunità.
Cosa si intende per scelta di opportunità?
Studi condotti hanno dimostrato la diminuzione dell’efficacia nel ridurre il rischio dell’infezione a partire dai quattro-cinque mesi per cui si è scelto i sei mesi come soglia non troppo vicina alla seconda dose che potesse andar bene per dare questo nuovo potenziamento della risposta immunitaria.
Quindi l’anticipo a cinque mesi non pone problemi di sicurezza in chi è già vaccinato?
Teoricamente non dovrebbe avere dei problemi di minore sicurezza, non ci si aspetta di riscontrare una differente frequenza di effetti indesiderati rispetto a chi fa il richiamo dopo sei mesi. E’ verosimile che il profilo di sicurezza sia simile.
Questo sottintende che, non conoscendo la scadenza dei vaccini dopo la terza dose, ne verranno somministrate altre?
Non lo sappiamo. Quello che ci si attende dopo questo richiamo è che la risposta immunitaria possa crescere e durare più a lungo nel tempo. Dopo una dose di richiamo l’efficacia si prolunga, di quanto non lo sappiamo, se sarà di un anno o due, dopo di che a un certo punto – ma è un parere del tutto personale – bisognerà identificare bene la popolazione che avrà bisogno del richiamo.
Infatti, già adesso lo si raccomanda alle persone fragili e agli over 80, è così?
Sempre a mio personale parere, in futuro si andrà verso una vaccinazione molto simile a quella per l’influenza, vale a dire che come per l’anti-influenzale bisogna definire le categorie per le quali il richiamo è consigliato. Potrebbero essere le stesse, fragili e over 80. Ha più senso somministrarlo a chi è più a rischio, come i fragili e gli anziani, e lasciare al resto della popolazione la decisione se effettuare questo richiamo con scadenza ipoteticamente annuale.
Non conviene prima della terza dose sottoporsi a un esame sierologico?
Il problema principale del sierologico è che fino a oggi non abbiamo un dato fondamentale.
Quale?
Il dato minimo degli anticorpi che danno protezione, cioè quello che in termini tecnici chiamiamo il correlato immunologico di protezione. Serve per sapere se chi ha più di questo livello di anticorpi è potenzialmente protetto, chi ne ha meno è a rischio infezione. In mancanza di questo dato il test sierologico diventa poco informativo. Si può fare un ragionamento grossolano dicendo tanti più anticorpi ci sono, tanto più una persona è protetta, ma non abbiamo un dato tale in grado di poter stabilire chi ha bisogno del richiamo e chi no. Per questo l’indicazione è legata alle caratteristiche delle persone: se uno è over 80 e se ha malattie croniche il richiamo è opportuno farlo, indipendentemente dal sierologico.
Non conoscere questo dato può ipotizzare rischi di effetti collaterali?
Non esiste a tutt’oggi un’associazione fra alto livello di anticorpi prima della somministrazione del vaccino e rischio maggiore di effetti indesiderati gravi dopo la vaccinazione. Chi ha tanti anticorpi non va incontro a un rischio più elevato di avere effetti collaterali.
Non conviene vaccinare prima coloro che non hanno ancora ricevuto la prima dose?
Sì, diciamo che sono i dati che indicano questo. Se guardiamo ai dati dell’Iss emerge che chi rischia di più oggi in Italia è chi non ha ancora fatto una dose di vaccino. Sono persone che hanno il maggior rischio di andare in ospedale, in terapia intensiva e di morire. Dopo di che c’è un rischio più basso nelle persone vaccinate da più di sei mesi e un rischio ancor più basso in chi è vaccinato da meno di sei. Però negli ultimi due casi il rischio è abbastanza simile, cambia poco. La priorità va comunque a chi non è mai stato vaccinato, dopo di che il richiamo è importante per chi è più fragile. Le persone che bisogna convincere a vaccinarsi sono quelli che hanno più di 50 anni con malattie croniche.
(Paolo Vites)
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