Teatro pienissimo in tutti gli ordini di posti, addette che con gentile fermezza ricordavano di coprire il naso a chi non indossava bene la mascherina, il Sovrintendente “in prorogatio” Carlo Fuortes nell’atrio a salutare gli spettatori, il sindaco Roberto Gualtieri (ad una delle sue prime uscite pubbliche) nel palco reale (il Capo dello Stato era all’inaugurazione del Teatro San Carlo di Napoli), molto critica musicale non solo italiana ma anche straniera, dodici minuti non di applausi ma di ovazioni al calar del sipario dopo circa tre ore di spettacolo (intervallo incluso). Questa in estrema sintesi la cronaca della serata inaugurale (20 Novembre) della stagione lirica e di balletto del Teatro dell’Opera di Roma. Una serata che corona otto anni di gestione in cui le finanze del Teatro sono state, in gran misura, risanate, il pubblico è tornato agli spettacoli e si è in gran misura ringiovanito, e la fondazione lirica di Roma si è posta all’attenzione internazionale, per la sapiente calibratura tra innovazione e tradizione, più della stessa fondazione La Scala di Milano.
In scena Julius Caesar “tragedia in musica” di Giorgio Battistelli, dal “dramma storico” di William Shakespeare, su libretto di Ian Burton, lavoro commissionato dal Teatro dell’Opera di Roma. E’ una rara occasione che una fondazione lirica italiana commissioni un’opera (alla mia età ricordo i tempi in cui gli “enti lirici” avevano l’obbligo, in cambio del finanziamento pubblico, di commissionare un’opera l’anno a compositori di quella che allora si chiamava la Comunità Economica Europea). Ed è la prima volta in decenni in cui una novità assoluta viene proposta all’inaugurazione della stagione – serata mondana in cui si preferiscono nuovi allestimenti di opere conosciute, preferibilmente con la possibilità di intervalli lunghi in cui svolazzare in tenuta da sera per socializzare. Una scelta coraggiosa che ha premiato management e direzione artistica del Teatro dell’Opera di Roma e che spero altri teatri vogliano replicare.
Ma andiamo a Julius Caesar. E’ la seconda volta che Giorgio Battistelli (il quale si ispira spesso ad opere teatrali o anche cinematografiche) parte da Shakespeare. La prima volta fu Riccardo Terzo che debuttò ad Anversa nel 2005. Come allora, ha al suo fianco Ian Burton per costruire un libretto che rispetta il Bardo di Stratford upon Avon ma se ne differenzia. In breve, non è un’operazione come quella di Benjamin Britten e Peter Pears per A Midsummer Night’s Dream, in cui si usarono i versi di Shakespeare, sapientemente ridotti.
Le innovazioni sono due. Il dubbio diventa l’elemento principale della seconda parte: tormenta i congiurati nella battaglia di Filippi (come nel dramma storico di Shakespeare, raccontata dai protagonisti non rappresentata in scena,). Il fantasma di Cesare si aggira sul campo di battaglia ed acuisce la tragedia intima che porta Bruto e Cassio al suicidio.
Quali le caratteristica della scrittura musicale? In primo luogo, è opera che – come in Billy Budd e, in gran misura, A Death in Venice di Britten – ci sono quasi esclusivamente voci maschili (c’è un breve intervento della sposa di Cesare, Calìpurnia, interpretata dal mezzosoprano Ruxandra Donose); è, infatti, una “tragedia in musica” di politica, potere, conflitti, guerra che si declina principalmente al maschile.
Ad un primo ascolto, la partitura può ricordare Britten, ma è molto più complessa di quelle del compositore della Casa Rossa di Aldenburgh. Si basa su stilemi, più che su armonie, è punteggiata da motti che spesso prendono la forma di tretracordi, momenti di consonanza, macchie timbriche quasi pittoriche. L’orchestrazione, che richiede un complesso situato oltre che in buca anche nelle due barcacce, è molto sapiente ed affascina, oltre che il pubblico avvezzo alla musica della seconda metà del Novecento, anche ascoltatori poco usi alla musica contemporanea. Nel coro, non mancano richiami alla polifonia tramite momenti a formazioni ridotte (otto voci, ad esempio). Nella vocalità prevale il declamato. Mi sarei aspettato un arioso nella lettura del testamento di Cesare da parte di Marcantonio (il baritono Dominic Sedgwick), ma lo si ha solo nel finale, affidato a Ottaviano (il tenore lirico Alxander Sprague). Prevalgono le voci scure (Cesare – Clive Bayley – è un basso e tra i congiurati di rilievo solo Cassio è un tenore, Julian Hubbard), come, peraltro, da aspettarsi in una tragedia in musica.
L’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, diretta da Daniele Gatti giunto alla conclusione del suo mandato come direttore musicale dell’ente, ha mostrato il suo alto livello e la sua capacità di affrontare una partitura non convenzionale e complessa. E’ stata, con il coro preparato da Roberto Gabbiani, uno dei protagonisti della serata ed uno degli autori del successo.
La regia di Robert Carsen situa la tragedia nella Roma di oggi; le scene sono di Radu Boruzescu, i costumi di Luis F. Carvalho, le luci di Carsen e Peter Van Prael. Una buona idea perché intrigo e dubbio permeano la politica di oggi, non solo a Roma e non solo in Italia. Un solo appunto: il 20 Novembre, nella scene al Senato, a volte i cantanti erano sugli scranni nei gradini alti, lontani, quindi, dall’orchestra. Ciò rendeva difficile ascoltare le voci comprendendone la parole.
Del successo si è detto. Se questo Julius Caesar non riceve il prossimo Premio Abbiati, sorge il dubbio che ci sia una forte tendenza a considerare prevalentemente i lavori in quello che fu il perimetro austro-ungarico della Penisola.