Il 25 novembre il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, sarà a Roma e il giorno successivo firmerà il cosiddetto “Trattato del Quirinale”. Qualunque sia il giudizio politico, è un evento storico, a cui poca attenzione hanno dedicato i nostri politici, tutti presi dalle beghe quotidiane, più attenti ai posti in Rai che a riflettere sul domani, sulla posizione dell’Italia, non si dice nel mondo, ma per lo meno in Europa e nel Mediterraneo.
Sull’importanza del patto non ci sono dubbi. Già dal nome a rievocare lo storico Trattato dell’Eliseo del 22 gennaio 1963 tra Francia e Germania Ovest che segnò la fine di quel conflitto iniziato con la Rivoluzione francese, ma in realtà erede della lotta di Luigi XIII e Richelieu contro l’Impero. Antagonismo franco-germanico che avrebbe distrutto l’Europa, portandola alla catastrofe finale delle due guerre mondiali. Non da sottovalutare i simboli del riavvicinamento tra le due nazioni. L’8 luglio 1962 a Reims, città bombardata dai tedeschi nel 1914, la città dove Giovanna d’Arco fece incoronare Carlo VII, la città dove i tedeschi si arresero agli alleati il 7 maggio 1945, Charles De Gaulle e Konrad Adenauer si ritrovarono fianco a fianco nella cattedrale ad assistere alla celebrazione del Te Deum. Messa solenne a consacrazione del cammino dei due paesi verso la riconciliazione. Il risultato fu che alla fine della Seconda guerra, il vecchio continente ormai esausto si ritrovò finalmente pacificato, ma con un ruolo politico di secondo piano sulla scena mondiale.
La Francia però non ha mai accettato questo ridimensionamento, lo dimostra la sua martoriata e drammatica esperienza nel processo di decolonizzazione. Basti pensare alle guerre di Indocina e d’Algeria. E le sue scelte verso il mondo. Fin da subito, fin dalla fine della Seconda guerra mondiale, le linee della politica estera francese, espressione del sentimento profondo transalpino, furono chiare. Pacificazione militare con la Germania, ricerca di indipendenza dagli anglosassoni, ricerca di una terza via con i nemici orientali. Politica che si tradusse in due scelte assolutamente chiare, che riaffermavano l’autonomia e la sovranità di Parigi: l’uscita nel 1966 dal comando militare Nato, che seguiva il rifiuto francese di aderire al progetto della Comunità europea di Difesa nel 1954.
Sotto la politica, a covare rimaneva il sogno neo-imperiale di Parigi. Basta leggere le pagine di uno dei personaggi più acuti ed eclettici del ‘900, Alexandre Kojève, filosofo, autore di un fondamentale La dialettica e l’idea di morte in Hegel, maestro di Quenau, Bataille, Lacan, ma anche alto funzionario dello Stato francese. Nel saggio L’Impero Latino. Progetto di una dottrina della politica francese del 1945, Kojève parte dalla considerazione che ormai gli Stati nazionali per motivi economici e demografici non sono in grado, in confronto all’“imperial-socialismo” slavo-sovietico e all’“imperial-capitalismo” anglosassone, di difendere la loro sovranità, perché incapaci di dotarsi di un esercito efficiente all’altezza dei compiti preposti, cioè il mantenimento della sovranità. Quindi uno Stato nazionale da solo si trova per forza di cose in balìa delle scelte altrui; in particolare, la Francia dopo la guerra si trova stretta tra l’antagonismo sovietico-americano e la potenza economica tedesca, sempre attratta dagli anglosassoni, ma anche con un occhio a est.
Per essere all’altezza della nuova realtà, sono quindi necessarie – continua il grand commis de l’État – delle “fusioni internazionali di nazioni imparentate”, perché la fine della nazione non significa il trionfo di un umanitarismo generico ispirato ad un pacifismo imbelle. Se la Francia non vuole ridursi ad uno “status di dominion più o meno mascherato”, deve guardare alla sua tradizione culturale e di civiltà, “alla tradizionale civiltà latino-cattolica”. La Francia infatti non può altro che essere uno “Stato grande e forte animato da una volontà politica efficace – concreta, positiva e precisa”. È dunque necessario superare la nazione per arrivare ad una “unione internazionale di nazioni apparentate”. Da qui l’ideale dell’impero latino, unità politica transnazionale formata da nazioni unite da lingua, civiltà, mentalità, con un sentimento religioso simile, che condividono lo stesso “clima” culturale.
Insomma, popoli con una parentela spirituale e una stessa concezione della vita indirizzata anche ad una ricerca del “bello”, lontani dal collettivismo sovietico, ma che non si identifica nemmeno con lo spirito borghese mercantile. Un impero, quello latino, democratico ispirato dalla categoria politica dell’indipendenza e autonomia assoluta, non semplicemente amministrativa ed economica, garantita da un esercito in grado di fornire “un’autonomia nella pace e una pace nell’autonomia”. Inutile dire che in una simile organizzazione, la Francia era la nazione che avrebbe detenuto il primato politico su Italia e Spagna.
Ma Kojève non si ferma all’aspetto ideologico, perché è naturale che l’autonomia dell’impero latino abbia un suo centro geopolitico. È il Mediterraneo, aperto verso l’Africa e l’Asia, il fulcro dell’azione dell’impero, area di cui deve avere “l’agibilità esclusiva”, perché “l’idea di un Mediterraneo mare nostrum potrebbe e dovrebbe essere il fine concreto principale, se non unico, della politica estera dei latini unificati”. Insomma, l’unico errore di Mussolini è stato quello di credere che questo fine fosse possibile raggiungerlo solo con i mezzi di una singola nazione!
Idee datate si dirà, scritte quando c’era l’Urss, in Cina c’era la guerra civile, ancora la Francia aveva le colonie e l’Unione Europea non esisteva. Tutto vero. Ma le grandi coordinate resistono nei decenni. Il Mediterraneo è sempre più al centro di una lotta che vede assente l’Unione Europea, ma è teatro di nuove presenze, dalla Turchia alla Russia, e nuovi problemi, si vedano i flussi migratori usati come arma. Costa sud dove i focolai di guerra sono sempre più vivi, dalla Libia, alla questione israelo-palestinese, al Libano, alla Siria. E con un’Europa indecisa nel suo ruolo – senza identità, si potrebbe dire –, con la Germania, potenza continentale, che ha al centro i suoi interessi economici con un sguardo sempre più ad est verso la Russia, la Cina e la Turchia. E gli Stati Uniti lontani, ma che non disdegnano di tirare qualche ceffone agli alleati europei, si veda l’Afghanistan, e alla Francia, come nel caso dei sottomarini australiani, pure in un teatro come quello australe dove qualche interesse Parigi lo ha.
Il fatto però da non dimenticare è che la Francia siede nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, è l’unico paese dell’Unione, dopo la Brexit, dotata di armi nucleari, ha ancora un’influenza notevole nel Maghreb e in Africa centrale, dispone di una proiezione marittima notevole con due flotte militari, nonché un’industria degli armamenti ragguardevole.
Ecco perché nel disordine mondiale odierno, e nella necessità di costruire anche politicamente una nuova Europa dotata di un suo sistema di sicurezza, Parigi ha delle carte da giocare anche con l’Italia. Basta che i progetti – come il Trattato del Quirinale – non siano eredi e proiezioni degli incubi del passato, ispirati a un risentimento anacronistico con idee di predominio che avvelenerebbero tutte le possibilità.
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