Nel suo ultimo articolo sul Sussidiario, Laura Giulian ha affrontato un tema sempre aperto e irrisolto, caro ad allenatori, tecnici, istruttori che hanno a cuore l’attività sportiva come fattore che concorre all’educazione e allo sviluppo globale dei giovani praticanti. La scelta cui sono chiamati i genitori rispetto al tipo di disciplina da praticare e al luogo nel quale svolgerla è sempre più delicata e urgente.
La questione dovrebbe riguardare non tanto quale sia il percorso che assicura al figlio di diventare un campione, ma da quale attività il figlio si senta attratto e quale corrisponda maggiormente alle sue attese e attitudini, senza piegare il suo futuro alla scelta prestabilita dai genitori.
Solo quando il bambino si sente coinvolto in una attività sportiva liberamente scelta e corrispondente al suo interesse sarà messo nelle condizioni di sprigionare tutte le sue potenzialità fisiche, atletiche, intellettive, affettive e di incanalare istintività ed emotività in un impegno continuativo e per questo utile a sviluppare una personalità equilibrata, capace di relazionarsi con l’altro e con tutta la realtà.
Chi ritiene che lo scopo dell’attività sportiva sia solo il raggiungimento del successo e del vertice della performance predilige la specializzazione precoce come strada sicura per garantire in tempi brevi i massimi risultati, anche se raggiungere risultati precocemente non significa essere certi di diventare atleti di alto livello. Non esiste una correlazione assoluta tra ore di allenamento praticate e risultati finali di massimo livello. A fronte di centinaia, e per alcuni sport, migliaia di giovani praticanti, sono pochi quelli che riusciranno ad arrivare a livelli di performance assoluti.
Non è sbagliato desiderare che il proprio figlio raggiunga livelli elevati, ma questo obiettivo, più che da un calcolo e da una costruzione forzata, è il frutto inaspettato e imprevedibile di un impegno libero, appassionato e gradualmente sempre più coinvolgente.
I fattori che concorrono a disegnare la storia di un atleta sono tanti e, nonostante un sempre più diffuso delirio di onnipotenza, non tutti sotto il nostro completo controllo. Basta infatti un infortunio, una crisi familiare o affettiva improvvisa, la mancanza di risorse umane o economiche, per bloccare lo sviluppo di tutte le potenzialità.
Il limite più grave della specializzazione precoce riguarda la possibile compromissione di uno sviluppo completo e armonico delle capacità che tutte costituiscono il bagaglio motorio di un ragazzo, in favore della sola acquisizione di quelle necessarie all’acquisizione di un determinato skill tecnico sportivo.
Analizzando i comportamenti dei ragazzi, oggi rileviamo che sono immersi per molte ore della giornata in una realtà virtuale e totalizzante, aumentando la piaga della sedentarietà, aggravata dal lockdown di questi ultimi mesi.
Una volta i ragazzi sviluppavano apprendimenti motori a base larga, giocando per ore nei cortili, nei parchi, all’oratorio, cimentandosi in qualunque prova e consolidando tutti gli schemi motori di base: correre, lanciare, saltare, rotolarsi, arrampicarsi eccetera. Su questa base si inseriva, intorno ai 10/12 anni, la scelta di uno sport a cui dedicarsi in maniera più assidua e continuativa. Oggi questo sviluppo non avviene più, complice la debolezza dei programmi motori scolastici, che speriamo venga superata nei prossimi anni anche grazie al previsto inserimento dell’educazione motoria nella scuola primaria, o avviene nei corsi pre-sportivi organizzati da società lungimiranti e realmente rispettose dei tempi di crescita dei propri ragazzi più piccoli.
È per questo fondamentale che i genitori verifichino che la società a cui affidano i propri figli preveda lo sviluppo periodico di attività multifunzionali, ludiche e polivalenti, per affiancare l’apprendimento dei gesti tecnici specifici con lo sviluppo di tutte le forme di coordinazione e di tutte le aree di crescita della persona: coordinativo motoria, emotivo/cognitiva e relazionale/sociale.
Questa attenzione vale sia per i ragazzi che desiderano praticare sport a specializzazione precoce (a gestualità fissa, o con closed skills, come ginnastica, nuoto che già tra i 5 e gli 8/9 anni richiedono acquisizione di automatismi rigidi delle abilità tecniche) sia per chi vuole praticare sport di situazione (a gestualità variabile con open skills, come calcio, pallacanestro, rugby eccetera).
Rispettare le tappe dell’età evolutiva vuol dire preferire una attività graduale, polivalente, che sviluppi una piramide a base larga di capacità motorie, capace di consentire, nel tempo, il raggiungimento di risultati sportivi più elevati.
Qualunque sia la scelta, occorre ricordare che l’attività sportiva può essere una grande occasione educativa e non un mero parcheggio per i figli. Quello che i ragazzi vivono nello svolgimento della pratica sportiva farà loro compagnia per tutta la vita come un’esperienza positiva.
Per realizzare ciò occorre che l’allenatore, oltre a trasmettere nozioni tecniche specifiche e specialistiche, sia consapevole di comunicare una visione della vita, uno sguardo con cui affrontare la realtà, un modo di essere e di agire. I genitori devono verificare che allenatori e società sportive, a cui affidano i figli quasi tutti i giorni o anche solo una o due volte alla settimana, abbiano questa consapevolezza educativa, questa affezione al bene reale dei ragazzi e un grande rispetto per quel desiderio di felicità e di realizzazione che abita nel loro cuore.
Adulti, quindi, capaci di trasmettere una positività di vita, un gusto nell’affrontare gli impegni e i sacrifici richiesti dall’attività sportiva perché sono i primi ad esser disponibili a farsi educare e impegnati a vivere con autenticità la propria esistenza.
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