Tommaso Zanella, in arte Piotta, è un rapper e un produttore discografico. Dai suoi esordi mainstream con il Supercafone (uno di quei brani tormentone che ti si infilano nella testa a vita) ha collezionato successi e riconoscimenti. Per i suoi testi impegnati, come il brano Scappa, o Metto in Discussione è stato candidato più volte al Premio Amnesty International, la sua musica è stata inoltre manifesto di Greenpeace per le campagne contro il nucleare e la privatizzazione dell’acqua in Italia. Oggi torna in scena con un brano fortemente radicato nell’immaginario della cultura popolare: Lella. La canzone, scritta da Edoardo De Angelis e Stelio Gicca Palli, ha superato indenne il suo cinquantesimo anniversario. Qualcuno la accosta alle murder ballad, evidentemente perché si parla, anche qui, di omicidio, ma il pezzo ha più il sapore di un’antica canzone romana. Quello che colpisce del brano è quanto la visione maschiocentrica riesca a fare ancora breccia, e come ci si ritrovi piacevolmente all’ascolto di una canzone che parla chiaramente di femminicidio dal punto di vista del carnefice, senza lasciare alcuno spazio alla storia della vittima. Una narrazione attraverso la quale, guarda caso, si finisce per provare più empatia con il colpevole del gesto efferato, che con chi l’ha subito. Certo, come raccontano gli autori originali in un’intervista con Federico Guglielmi, all’epoca non esisteva la parola femminicidio (ma di quello si tratta e non lo si può assolvere diversamente), e dal loro punto di vista è un brano che racconta il sopruso del ricco, la donna, nei confronti del povero, l’uomo, che sentendosi trattato come un oggetto, finisce per ucciderla. Quindi prima di tutto un ribaltamento di ruoli inaccettabile, specie per l’epoca. La donna ricca, per di più infedele, e l’uomo oggetto. Altro che favola popolare. Quella di Zanella non è la prima cover del brano, ma sicuramente una delle più originali. In occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ho provato a fare due chiacchiere con lui proprio su questo lavoro e sull’eventuale senso di responsabilità degli artisti rispetto a certe tematiche.
A un anno dalla colonna sonora originale di Suburra, è arrivato un altro lavoro musicale, che è qualcosa di più di una semplice cover: Lella… e poi. Come mai hai sentito la necessità di metterti al lavoro su questo brano?
È un brano a cui sono molto legato, non solo io ma tutti i romani, e oltre. È un brano che da sempre si canta a Roma, dalle piazze di Trastevere fino alla Curva dello stadio Olimpico, da bambino come da ragazzo, fino a coglierne tutta la profonda drammaticità in età adulta. La stessa cosa è successa a me, ed è il motivo per cui ho messo “a sedere” il brano, in questo arrangiamento Urban, tra batterie elettroniche moderne e pianoforte acustico, suonato in maniera incredibilmente emotiva da Francesco Santalucia, con cui avevo già realizzato 7 vizi Capitale e la colonna sonora originale Netflix di Suburra.
Il tema trattato è molto delicato. Non è una corrente di pensiero, né un filone letterario, il femminicidio è un crimine, ancora troppo spesso affrontato dai media con un linguaggio fuorviante, che ammanta di folle romanticismo omicidi efferati, e che mette in primo piano quasi sempre chi il gesto l’ha compiuto – il carnefice – e quasi mai la vita di chi lo ha subito, la donna. La canzone, in qualche modo, utilizza la stessa cifra. Non pensi sia un rischio questo tipo di narrazione anche nella musica?
Secondo me non utilizza la stessa cifra. Non c’è romanticismo nel personaggio maschile, c’è dannazione, proprio in quella parte ex novo scritta per questa versione, versione che non a caso si intitola “Lella…e poi”. È un vecchio verso nel quale non c’è compassione alcuna, un vecchio che si trascina dietro il suo fantasma, lì fino al luogo dove tutto è cominciato, pronto a pagare finalmente il conto davanti a colui che – da ragazzo di strada pasoliniano quale fu e resta – ritiene il suo unico Giudice Supremo… Dio. È un finale catartico da tragedia greca.
Come mai, secondo te, nella narrazione che si fa dei femminicidi, si tende ad assolvere con una certa retorica chi è colpevole?
Non credo che nessuna persona sana di mente possa assolvere un crimine di questo tipo, almeno alle nostre latitudini culturali. Mi spiego meglio, i casi purtroppo ci sono, ma non credo che si trovi più nessuna persona dotata di intelletto e raziocinio disponibile a mitigare la colpa – come fu fino a pochi anni fa – invocando delitti di pseudo onore o non so cos’altro. Dai tempi dell’antica Roma e del femminicidio di Apronia, i tempi sono mutati, anche se ci hanno messo davvero troppo, ma bisogna insistere ancora e tenere sempre la luce ben accesa. Alcune persone che arrivano da lontano agiscono in una sfera culturale diversa, in questo senso quasi tribale e selvaggia, che gioca drammaticamente al ribasso. Bisogna lavorare sulle nuove generazioni, sui figli e i nipoti, e far capire loro che non c’è alcune legge che possa assolvere certi comportamenti criminali. Sull’argomento insomma non c’è un colpevole più e un colpevole meno, ma secondo me solo Colpevoli con infamia, senza se e senza ma!
Se oggi la canzone, invece, fosse dal punto di vista di lei, Lella cosa racconterebbe di sé e cosa direbbe al suo assassino?
La versione nuova poteva essere raccontata dall’amico citato nel brano originario di Edoardo De Angelis e Stelio Gicca Palli, dall’omicida stesso – come poi ho fatto – o da lei, dalla vittima, da Lella. Quest’ultima sarebbe stata forse la versione emotivamente più intensa, ma – dato il tipo di canzone – non me la sono sentita di farlo io, penso infatti sarebbe più incisiva in tal senso la voce e la sensibilità di una interprete femminile, una voce romana come quella di Fiorella Mannoia, o di Noemi, o in ambito più soul o urban (così come quello in cui mi sono mosso io) di Giorgia o Elodie.