Con una costanza degna di una causa nobile, con una ritmicità degna del miglior rapper, con una cecità degna di un politico ideologico di seconda fila, ci viene riproposto con insistenza il tema del “lavoro povero”. Quanto davvero interessi il “lavoro povero” in sé, quanta attenzione e quanta passione susciti nell’animo di ognuno che ne parli, beh questa è materia che una volta avremmo lasciato ai direttori di coscienza e oggi affidiamo agli psico-aggettivati (scienziati, neurologi, psico-psicologi e via psicheggiando). Invece ci importa indagare quanta parte nella discussione abbiano riflessi politici ideologici. Anche perché sarà un caso, sarà un episodio, ma ecco che, sull’onda dell’accordo governativo raggiunto in Germania dalla nuova coalizione al potere, anche qui da noi, nella nostra sballata repubblica, tra una eutanasia e un green pass, qualcuno ha pensato bene di risolvere la questione rilanciando l’idea del salario minimo. Tema serio, risposta banale.
Diciamolo subito: non crediamo che esistano uova di Colombo per soggetti complessi. Troppo facile: il mondo sarebbe decisamente meno sottosopra se bastassero le soluzioni più immediate per compiere passi avanti. Lo stesso Creatore per cercare di far andar meglio le cose ha dovuto inventarsi un “secondo tempo” spedendo in campo il suo fuoriclasse e acconciandosi, volendo finalmente vincere la partita, a vedergli fare una fine apparentemente non proprio gloriosa. Figuriamoci se basteranno gli appelli al sentimento (non alla coscienza, ma proprio al sentimentalismo) o qualche slogan dalla traballante grammatica per scardinare l’attuale andazzo.
Il quale, diciamolo subito, non è fuori dal tempo, non è fuori dalla storia, ma è anzi figlio di tutte le nostre scelte passate. E confessiamo anche che sotto la demagogia che spesso essa nasconde, rivendicare un giusto salario è una giusta pretesa. Epperò con altrettanta chiarezza affermiamo che il lavoro povero, cioè il lavoro pagato poco, è quanto rimane della rivoluzione post-industriale e quindi comprendiamo anche che gli orfani della lotta di classe, variamente declinata, si accrocchino agli appigli che hanno sotto mano per tentare di rilanciare le gloriose sorti progressive del proletariato.
Qualcuno pare aver necessità di disporre di un proletariato sottomano per scatenare la rivoluzione. Qualcun altro, e noi siamo tra costoro, guarda all’uomo, non alla classe sociale.
Il dilemma infatti, a nostro giudizio, si pone in termini un po’ diversi da quelli rilanciati sulla stampa: non esiste l’alternativa lavoro povero-lavoro ricco, bensì quella tra lavoro e non lavoro e soprattutto la stretta interrelazione, che potrebbe essere creativa se non fosse ogni volta rigettata nell’angolo, tra lavoro e promozione sociale. Intendiamoci: un giusto salario è un atto dovuto, un diritto, e un diritto evangelico ben prima che marxista. Gesù Cristo, se non ricordiamo male, invocava una giusta mercede per tutti i lavoratori. E, anche se abbiamo molti dubbi che il suo discorso sarebbe stato capito da eventuali sindacalisti dell’epoca giacché lui non faceva gran distinzione tra quelli che avevano faticato dal mattino e chi si era accomodato in tardo pomeriggio, né pretendeva una Mercedes per mercede, tuttavia in quei versetti Egli poneva un problema vero.
Il salario minimo per legge è quindi la soluzione per questo problema? Non lo pensiamo: il lavoro povero è povero perché in genere i margini operativi sono ridotti e di solito non vengono ripartiti in misura equa. Fateci caso: le cooperative, soprattutto in quelle che per numero di aderenti sono facilmente raffrontabili a enormi fabbriche; i nuovi impieghi marginali (dai distributori di pizze a chi consegna pacchi, posta, pubblicità); i contesti lavorativi meno garantiti, sono anche i luoghi da cui il sindacato (quello vero, per intenderci Cgil, Cisl e Uil e pochissime altre sigle) è lontano o per incapacità propria di entrarvi o perché ne viene tenuto alla larga attraverso la stipula di contratti nazionali burletta.
Laddove invece i sindacati agiscono, dove intervengono, dove operano potranno esserci lavori pagati poco, ma mai lavori sottopagati. Lo dimostra il fatto che anche in settori assai marginali, gli interinali ad esempio, l’azione lenta ma costante delle associazioni sindacali ha potuto e saputo costruire garanzie, sistemi di welfare aziendale o sociale, tutele individuali e collettive. Di fronte a un tale problema poi, ci pare che la discussione si stia orientando, o meglio sia orientata dai mass media e da chi ne dispone le parole d’ordine, lungo il consueto binario ideologico. Per costoro i problemi non sono mai complessi ma sempre bipartiti: o lavoro povero o salario minimo. Siamo messi di fronte a una scelta che per essere semplicistica diviene immediatamente ideologica: fateci caso, ma è mai possibile che o si sia a favore del lavoro povero (e quindi si sia contro il buon senso, l’umanità e, utile citazione per casi di questo tipo, anche contro il dettato pontificio), o si stia con il salario minimo per legge? Cioè si deve scegliere tra far lavorare la gente sottopagata e il farle perdere il lavoro?
Perché le conseguenze di una legge siffatta sono facilmente indovinabili: chi oggi guadagna non smetterà di farlo, semplicemente modificherà tempi e modi di organizzazione. Agevole prevedere, per chi si è un po’ occupato di lavoro sul terreno, per chi non vive nei salotti (televisivi e non) radical chic, che aumenteranno i carichi individuali, che si assisterà alla riduzione del personale, che verranno ridotte le già scarse, per non dire inesistenti, tutele.
No, la soluzione non è il salario minimo per legge, risposta ideologica a un problema vero, ma un’azione di tutela più profonda, duratura e soprattutto capace di leggere il fenomeno nella sua vera natura e non nella sua dimensione onirica. Diciamo onirica perché ci sembra davvero indicativo che il tema (salario minimo come risposta al lavoro povero) sia stato rilanciato da un disgraziatissimo (nel senso etimologico del termine) articolo comparso su un quotidiano nazionale, articolo che non a caso principia citando un’assurda, più che pessima, poesia: “Il corpo dei poveri cadrebbe a pezzi se non fosse ben stretto dal filo dei sogni”. Ma come, il corpo di chi non ha nulla deve sognare per poter sussistere? Sarà pur stata citata da Cofferati, ma a noi pare una bestemmia: bestemmia contro il povero e contro l’economia. Il corpo del povero ha bisogno di più compagnia e vicinanza, cioè di tutele garantite dal sindacato, e non di sogni, cioè di quella ideologia che è il salame per chi ha già il pane e può quindi permettersi di far digiunare gli altri pur di applicare le sue teorie.
Capiamo che il Fatto nella sua lotta (Quotidiana) contro Draghi, il draghismo, il capitale, il mondo, la ragione, il buon senso, contro tutto e tutti insomma rilanci la questione: essa però non solo non appartiene al novero del possibile, ma rischia, soprattutto visto chi l’ha avanzata, di avere le stesse conseguenze del Reddito di cittadinanza.
Doveva essere la scomparsa, per legge, della povertà: è diventata una tragica barzelletta.
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