Nel momento esatto in cui, alle dieci e trenta del mattino, la delegazione di Venezia (sventolando la bandiera rossodorata del Leone di San Marco) entrava nel piazzale, si allargavano le nuvole che fino ad allora avevano ingrigito il cielo, e irrompeva il sole. È stato un segnale positivo, al primo Raduno nazionale degli studenti universitari contro il passaporto verde, tenutosi nel classico parco di Bologna (i “Giardini Margherita”, dove generazioni di bolognesi sono cresciute giocando in seno a un pezzetto di natura), il 27 novembre scorso. Ma il gruppo degli studenti non era troppo numeroso (150-200 giovani). Si trattava tuttavia della prima iniziativa di questo genere in Italia e forse in Europa (come indicavano i messaggi di solidarietà giunti non solo dalla Germania, ma anche da Stati in certo senso “inattesi”, come la Lituania e la Svizzera); e le regioni italiane rappresentate ai Giardini erano molte.
Chi dunque era lì in quella mattina può ben dire di essere stato “presente alla creazione” (espressione un po’ enfatica di quella lingua tendenzialmente enfatica che è l’americano): era la creazione di un movimento politico e culturale, che può avere un futuro importante; e la piccolezza del nucleo iniziale non è necessariamente un brutto segno, nella dinamica effettiva di questi fenomeni.
È comunque un bene che ciò sia accaduto a Bologna: l’università, e la città che la ospita, dovrebbero accogliere con interesse questa novità. Che non ha pretese rivoluzionarie (l’aggettivo, grazie al cielo, è quasi scomparso da tali contesti), e non è nemmeno una rivolta, ma semplicemente una civile protesta, e una forma di resistenza civile. I ricordi dei pochi anziani che sostavano interessati ai margini del gruppo avrebbero potuto riandare (fatte le debite proporzioni) al Sessantotto, data peraltro che per gli studenti lì raccolti apparteneva alla storia premoderna, quasi come l’anno Quarantotto dell’Ottocento. Ma questo, appunto, era il problema: la storia lascia solchi profondi, anche dentro coloro che non se ne rendono conto.
Il linguaggio di questi studenti del novembre 2021 era ancora troppo simile alla vecchia lingua sessantottina: meno la plumbea retorica di sinistra (fortunatamente), ma anche (sfortunatamente) meno i guizzi di linguaggio creativo che si sentivano allora in Italia, magari tradotti dal nostro linguaggio americano, o dal francese. E tutto ciò mette in risalto i due cliché opposti, ugualmente diffusi e ugualmente ingannevoli, che si ascoltano oggi sulla gioventù studentesca e non. Questa categoria metafisica – “i giovani d’oggi” – viene a volte (soprattutto nelle chiacchiere in famiglia o al bar) biasimata come molle e irresponsabile, e altre volte invece (specialmente nell’opportunismo dell’oratoria politica) esaltata come portatrice del nuovo.
Nessuna di queste due idee ha un rapporto particolarmente stretto con la realtà: la serietà e intensità di tantissimi giovani oggi è quasi commovente. D’altra parte, questi stessi giovani, che hanno sete del nuovo, hanno tuttavia ancora una lunga strada da percorrere, prima di pensarlo e dirlo, questo nuovo. Gli studenti, infatti, tendono a ripetere i discorsi dei loro maestri accademici o extra-accademici con un’ansia di appropriazione, con l’illusione in buona fede di stare inventandoli sul momento.
Quel giorno ai Giardini Margherita sarebbe bastata una frase diversa dal solito, un’immagine pittoresca, per accendere gli animi (e alleviare la noia dei poliziotti intorno, appoggiati a braccia conserte contro le fiancate dei loro veicoli). Ma l’unica espressione non grigia in quei discorsi (almeno, quelli della mattinata) era un pensiero opportunamente tagliente sulla miseria della “nuda vita”; un’immagine però che, come sappiamo (ironia della storia e delle generazioni), proviene dalla penna di un filosofo ottantenne. Il che non vuol dire che le vecchie generazioni siano ipso facto depositarie della saggezza. Per esempio, nell’acuto e coraggioso libretto di quello stesso filosofo si dice a un certo punto: “Dovremmo, in una parola, porci seriamente la sola domanda che conta, che non è, come ripetono da secoli i falsi filosofi, ‘da dove veniamo?’ o ‘dove andiamo?’, ma semplicemente ‘a che punto siamo?’”. È una frase che ha un bel suono marxiano, ma non convince (o forse è appunto per questo…).
C’è sempre qualcosa che lascia a disagio nelle distinzioni generalissime fra i “falsi” e i “veri” filosofi. Ma a parte ciò, è lecito ipotizzare invece che noi siamo al punto in cui siamo anche perché i filosofi, e i teologi, hanno un po’ trascurato di riflettere sulle eterne domande cui non si può non continuare a pensare (senza la pretesa di trovare risposte definitive): le domande sul donde veniamo e dove andiamo.
Chi ha introdotto i lavori del 27 novembre era, guarda caso, uno studente di filosofia; e si può star sicuri che qualcuno (filosofo, letterato, economista o altro), in quel gruppo raccolto sotto il solicello invernale, sarà stato stimolato proprio da quella giornata a rimuginare sulle domande alle quali non si sfugge.
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