Transitoria? Ma quando mai. Nel giro di una settimana l’inflazione, da malessere di stagione di breve durata, si è trasformata negli Usa nel nemico pubblico numero uno. Jerome Powell, una volta confermato alla presidenza della Fed, ha rinnegato la “pazienza” nei confronti dell’ascesa dei prezzi. Né l’esplosione della variante Omicron ha cambiato il suo atteggiamento.
Intanto la diplomazia americana ha ottenuto un sorprendente successo sul fronte del petrolio. L’Arabia Saudita, sotto le pressioni Usa, ha deciso di rispettare il programma di aumento della produzione di greggio, nonostante il crollo dei prezzi che ha accompagnato l’ultima ondata della pandemia. Ci vorrà tempo per capire che cos’è stato concesso a Mohammed Bin Salman in cambio dei 400 mila barili di greggio in più per il prossimo trimestre. Ma il valore politico della mossa non è sfuggito ai mercati: Joe Biden è deciso a far scendere i prezzi dell’energia a qualunque costo. Un po’ perché solo così può sperare di invertire la rotta del consenso elettorale che lo vede in svantaggio sui repubblicani, un po’ perché l’economia non può consentirsi nuovi lockdown a danno della ripresa. Un po’ di inflazione non fa male, purché il Pil salga più del carovita. Altrimenti si trasforma in una trappola infernale.
La cosa più importante, perciò, è mantenere un tasso di crescita buono, l’inflazione sotto controllo anche con un moderato aumento del tapering che garantisca un dollaro forte e, naturalmente, materie prime sotto controllo. Non solo il greggio, ma anche il carbone senza troppo danneggiare il senatore Manchin, portavoce della lobby della Virginia, indispensabile per l’approvazione del pacchetto di misure sociali del Presidente, l’altro tassello necessario per vincere la sfida elettorale del prossimo autunno.
L’Europa, dal canto suo, si trova in un’altra fase del ciclo economico. Nonostante gli indiscutibili progressi dell’economia dell’Eurozona, specie in Italia, la ripresa resta fragile, in particolare in Italia e Spagna sul fronte dell’occupazione. I tassi bassi sono ancora necessari, nonostante l’inflazione abbia preso la via della risalita a ritmi quasi americani. Ma non è più (o ancora) tempo di ripresa del costo del denaro, anche se aumentano in maniera sensibile le esigenze della comunità di Bruxelles, avviata a essere controllata dall’accordo a tre tra Francia, Germania e, grande novità Italia.
Per la prima volta l’esigenza del Bel Paese di avere a disposizione capitali per la crescita si combinano con la fame francese per riaffermare la leadership nell’energia nucleare e nella difesa e, soprattutto, con il disagio della nuova Germania: forte e stabile, ma alle prese con la costosissima ristrutturazione della sua industria dell’auto, Di qui un atteggiamento tendenzialmente espansivo, seppur accompagnato dalla stretta antivirus: la politica economica dei prossimi mesi non passerà dallo spread sui tassi, bensì dalla salute. L’euro debole rispetto al dollaro favorirà intanto l’export, altro grande vantaggio per il made in Italy.
Insomma, le cose continuano ad andare bene. Omicron permettendo. Ma il debito per ora non ci deve far paura. La corsa migliore è aggredirlo per tempo: il petrolio scende per ragioni politiche, ma i suoi fondamentali sono sempre più forti. L’inflazione strutturale, quella che ci accompagnerà nei prossimi anni quando sarà passata l’ondata transitoria, non è destinata a lasciarci, ma è un problema di medio termine. È l’ora di crescere, magari aumentando la produttività del sistema. Domani potrebbe essere tardi perché l’inflazione prima o poi non perdona.
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