La scorsa settimana Ursula von der Leyen ha presentato il Global Gateway. Si tratta di una via di accesso globale per garantire quegli approvvigionamenti di cui l’Europa ha bisogno e che si pone come alternativa verde e democratica alla “Via della Seta” cinese, senza i quali il Green Deal non può vivere.
Come avevamo anticipato qualche mese fa, la riconfigurazione della globalizzazione, la crisi delle materie prime e la conseguente spinta inflattiva, hanno indotto la Commissione europea ad accelerare il suo progetto di collegamento con il mondo: un investimento da 300 miliardi di euro da qui al 2027 per costruire le nuove infrastrutture del digitale, dell’energia e dei trasporti che consolidino i suoi scambi con area balcanica, Medio Oriente e Africa. Per muovere queste risorse, saranno coinvolte tutte le istituzioni europee dalla Bei (la Banca europea per gli investimenti) alla Bers (la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo) e il programma di Bruxelles si coordinerà con l’analoga iniziativa statunitense, il “Build Back Better World”.
L’Europa spinge sui valori dello sviluppo sostenibile di cui è alfiere nel mondo con l’obiettivo di rafforzare la sua alleanza con l’area atlantica in una prospettiva di contenimento dell’egemonia cinese che è, in parte, all’origine della crisi delle materie prime. Infatti, la carenza di microchip e materie prime si spiega non solo con la forte ripartenza delle produzioni e dell’economia e con il disallineamento dei diversi lockdown mondiali: si pensi, ad esempio, a quel grande fornitore che è il Vietnam il cui lockdown rallenta le produzioni ancora oggi. Del resto, quando si è fermata l’Italia, si è fermata la Germania, perché gran parte della nostra componentistica e utensileria va lì. Ma appunto, vi sono elementi che hanno che fare con la riconfigurazione della globalizzazione: la Cina lo scorso anno, approfittando del lockdown generalizzato e del calo dei prezzi, ha comprato materie prime ovunque. C’è chi dice per fare scorta, ma non è solo questo. A Pechino sono consapevoli del fatto che l’Europa è concentrata sul consolidamento del suo mercato. Solo così, infatti, il Next Generation Eu può avere successo. E ciò non può non avere riflessi sulla penetrazione nel MEC del prodotto made in China. Ecco che allora la Cina – che vale più di 1/3 della produzione manifatturiera mondiale -, avendo acquistato materie prime in tutto il mondo si è rafforzata e ha allo stesso tempo indebolito l’Europa, costringendola oggi a comprare a prezzi notevolmente aumentati, come del resto fa anche la Russia col gas.
L’Europa vuole così ritrovare la sua autonomia industriale. A differenza, degli Usa, che sono stati più accorti nelle delocalizzazioni, l’Ue non ha avuto una strategia condivisa dagli Stati membri e, di conseguenza, ha perso autonomia su molti fronti. Lo abbiamo visto, drammaticamente, con le mascherine e lo vediamo anche con i vaccini. L’Europa è infatti l’unico grande Paese che non ha un proprio vaccino ma lo importa: gli Usa ne hanno 3 (Pfizer, Moderna e Johnson and Johnson), la Cina ha Sinopharm, la Russia ha Sputnik, la Gran Bretagna ha AstraZeneca.
Il Vecchio continente non è così ricco di materie prime come gli Usa e quindi, per certi versi, sta subendo questa situazione senza grandi colpe. Ma su microchip e semiconduttori non si doveva arrivare a questo punto: si è persa completamente indipendenza produttiva su componenti indispensabili a qualsiasi circuito elettronico e digitale, finendo col dipendere dalle economie con cui competiamo. Il Global Gateway è appunto questo grande progetto infrastrutturale con cui l’Europa vuole rafforzare la sua capacità di approvvigionamento per contenere Cina e spinte inflattive.
Sono naturalmente buoni propositi. A proposito di infrastrutture, però, resta qualche mistero sulle reali intenzioni dell’Ue circa la mobilità elettrica. Al di là dell’allarme lanciato qualche giorno fa da Carlos Tavares, Ceo di Stellantis, sui costi dell’elettrico, non si comprende la lentezza con cui Bruxelles sta gestendo il piano per la modernizzazione della rete stradale e autostradale europea. È questo un fattore che sicuramente non incentiva il mercato dell’auto elettrica. Inoltre, i grandi costruttori annunciano riorganizzazioni e ristrutturazioni, il che significa licenziamenti: l’operatività di un programma infrastrutturale per la mobilità elettrica avrebbe anche la valenza di intercettare questi flussi occupazionali e di ricollocare coloro che sono in uscita dal settore automotive.
Auto elettrica e colonnine sono al centro del Green Deal europeo. Tuttavia, passare dalle politiche programmatiche ai lavori in corso non è mai semplice – anzi, è la cosa più difficile – ed è il grande salto a cui sono ora chiamati Europa e Stati membri. Speriamo non sia questo salto a fermare il Next Generation Eu.
Twitter: @sabella_thinkin
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