Caro direttore,
torno su un tema accennato nel mio ultimo articolo, al quale vorrei dare una portata più generale. Nel Danno scolastico di Ricolfi e Mastrocola, gli autori descrivono la catastrofe della scuola, evidente nel crollo, rispetto ai livelli storici, della preparazione degli studenti liceali ed universitari.
Ma nel loro discorso manca la considerazione sulle vicende scolastiche di quell’80% che fino al 1962 non andava, dopo le elementari, alla scuola media ginnasiale, anticamera obbligata del liceo e dell’università. Questa mancanza impedisce di collocare anche il disastro dei livelli superiori. Perché la scuola di base non può essere finalizzata alle superiori, bensì alla formazione di base del cittadino.
Certo livelli superiori devono esistere per formare specialisti e abilitare a professioni diversificate, che però non possono riguardare la grande maggioranza dei giovani. E quei percorsi possono anche essere selettivi senza imbarazzo, se il livello di base è ben gestito e qualificato.
Bisogna quindi pensare a quell’80% che non si iscriveva alla vecchia scuola media.
Quella percentuale, pur con infinite particolarità, si iscriveva alla scuola di avviamento professionale. E si incamminava, generalmente, verso la consueta e antica vita di lavoro e di frugale livello economico. Ma non era infelice per questo.
Nei sentimenti di quell’80% non credo predominasse l’invidia e il senso di inferiorità rispetto all’élite minoritaria più benestante e colta. Il pensiero più diffuso era la conquista di una sicurezza economica per la famiglia. Una priorità che si vede bene ancora oggi nella prassi, anche politica, dei paesi in via di sviluppo.
Certo, se in una famiglia non ricca un figlio dimostrava attitudine spiccata allo studio veniva possibilmente indirizzato verso studi d’élite, sperando in un avvenire per lui più agiato. E così tante famiglie, allora numerose, avevano magari uno dei figli che si diplomava maestro, o che entrava in seminario, o che – nel caso di una figlia – sposava un benestante. Ma l’obiettivo non era il “riscatto” collettivo, come viene spesso descritto dai militanti dell’egualitarismo. Era una possibile via verso una maggiore sicurezza e benessere, magari con ricadute per l’intera famiglia.
Né il problema vero era la diseguaglianza ed il sentimento di invidia-odio che essa suscita. Per quell’80% il vero problema, il desiderio vero era lo sviluppo ascendente o almeno non discendente (oggi è mediamente discendente) delle condizioni di vita e di lavoro.
Lo sviluppo ascendente nel dopoguerra ci fu, grandioso. Ed in 30-40 anni trasformò enormemente la vita dell’intera popolazione italiana. Ma la scuola non è migliorata.
Oggi dopo la scuola media metà dei giovani si iscrive al liceo, ma è l’indicatore di un avanzamento nel rapporto scuola famiglia? No. È, a mio parere, il segno del fatto che la mancanza di un percorso tecnico-professionale adeguato e di qualità preclude l’accesso a corsi di studio non lunghissimi e in sintonia col mercato del lavoro. Solo la “disperazione” spinge masse di genitori ad iscrizioni liceali sperando, invano, che lì il degrado organizzativo imperante nella scuola dell’obbligo sia inferiore.
L’aspirazione al mantenimento di uno status sociale e la volontà di risparmiare ai figli l’iscrizione a scuole ritenute culturalmente e socialmente squalificanti sarebbe automaticamente soddisfatta per il famoso 80% con un percorso professionale e tecnico molto qualificato. Imparare dalla Germania non sarebbe difficile.
Già il fatto che l’obbligo scolastico attuale preveda la frequenza fino a 16 anni ma non esista un percorso scolastico di due anni dopo la scuola media che si concluda con una qualifica (la qualifica professionale minima prevede almeno 3 anni dopo la media) evidenzia l’approccio ingannevole dei vertici scolastici statali. In essi infatti domina (sincera o strumentale) l’utopia dell’uguaglianza e del “riscatto” che vorrebbe tutti studenti universitari e vede il lavoro esecutivo come una umiliante condanna. Questa è l’unica spiegazione che riesco a darmi dell’immobilismo totale sui percorsi professionali, a cui solo la ministra Moratti provò di mettere mano nel lontano periodo 2001-06 quando tutto venne cassato alla fine del suo mandato.
In tutta Europa si sa e si dice che circa metà dei giovani non è portata per l’apprendimento concettuale e si adatta bene alla procedura dell’imparare facendo. Tutti concordano sul gradimento e l’efficacia dei laboratori, cioè di spazi di apprendimento operativo, ma in Italia continua ad imperversare la reverenza verso il “classicismo”. Una reverenza in realtà solo di facciata, inutile e dannosa, perché non conseguente sul piano della difesa reale della cultura classica e paralizzante sul piano della creazione di una scuola adeguata ai tempi e alle persone reali.
Lo scontro tra Mastrocola e don Milani è in realtà la descrizione di un’incomprensione e di un antagonismo non necessario e che andrebbe superato. Serve sia la formazione di élite culturali e professionali destinate ai gangli dell’amministrazione dello Stato, della cultura e delle aziende, sia un buon livello culturale di base necessario per ogni cittadino lavoratore di oggi. L’egualitarismo non si accorge che il vero problema sta nel disallineamento tra élite e popolo e non nella diseguaglianza. Un’élite di alta qualità è necessaria ed utile per gestire lo sviluppo, purché tale élite non si separi dal “popolo” dei lavoratori specializzati.
Dovrebbe finire il fasullo antagonismo tra i due livelli perché, se disallineati, producono da un lato un cattivo “popolo” rabbioso e impotente, e dall’altro una cattiva “élite” presuntuosa e a sua volta impotente.
A mio parere il limite paralizzante del discorso di Ricolfi-Mastrocola, ma anche di moltissimi altri discorsi sulla scuola, sta nel non distinguere tra scuola di base e scuola superiore. La scuola di base deve formare il cittadino e non abilitare a qualche professione. Deve cioè formare (sostenere senza forzature eccessive) un livello culturale comune alla stragrande maggioranza dei giovani.
Questa considerazione fondava la richiesta di don Milani di escludere la bocciatura dalla scuola di base.
Per questa ragione la scuola di base deve essere unica e annoverare classi con presenze inevitabilmente molto differenziate sia nel livello cognitivo, sia nel livello intellettuale che nella motivazione. Differenze che però risulteranno significative, perché generate dalla grande stratificazione sociale della nazione e ricomposte temporaneamente in un unico contenitore.
Le interazioni che avvengono in questa classe multiforme, interazioni dei giovani tra loro stessi e tra i giovani e gli insegnanti, hanno un forte carattere formativo ed agiscono anche sulle abilità del corpo docente. Infatti quest’ultimo può cogliere la natura vera del proprio compito ed imparare a perseguire aspettative realistiche, non artificiose e cervellotiche sia sul gruppo che sui singoli individui.
A questo livello, cioè nei primi 8 anni di scuola, non deve esistere la selezione ma il sostegno, il doposcuola, le attività mirate per coloro, circa il 25% o anche il 30%, che nel lavoro a classe intera mostrano lacune, ritardi, deviazioni comportamentali e comunque carenze sostanziose ben chiare e note a chi gestisce la classe intera.
Sapendo che esiste e circola l’idea di abolire la classe e la relativa vita di classe anche nella scuola di base come avviene all’università, ribadisco l’importanza di una vita di classe intera con una stabilità e ripetitività delle relazioni al suo interno. Naturalmente non servono 30 ore settimanali per questo, bastano ed avanzano 20 ore ed anche meno.
La soluzione che propongo è quella di fare massimo 4 ore di scuola per 5 giorni a classe intera al mattino. Stabilirei per i docenti una ripartizione ordinaria tra ore di insegnamento a classe intera ed ore di attività mirate di recupero, sostegno e orientamento. Ad esempio 6 ore settimanali delle 18 alle medie e 7-8 ore delle 22 alle elementari per le attività mirate da svolgere il pomeriggio. L’intervento del docente su singoli alunni o piccolissimi gruppi di 3-4 persone, oltre all’evidente aiuto in favore degli alunni, creerebbe anche una maggiore consapevolezza di tipo teorico nel docente, evidenziando ai suoi occhi i punti e le ragioni per cui l’apprendimento trova maggiori difficoltà o blocchi.
Alla scuola di Stato e parificata darei quindi il fondamentale compito formativo di base, esonerandola dal sostegno alla famiglia tipicamente invocato dai fautori del tempo pieno. Il sostegno organizzativo alle famiglie è importantissimo fin dal primo anno di età, ma deve avvenire su base assistenziale e territoriale e con diverso ed autonomo calcolo finanziario. Affidando ad esempio ai comuni le mense, il pre-scuola e il post-scuola. Cosa che avviene in parte anche oggi, ma che dovrebbe essere stabilita in generale ed anche ampliata.
Purtroppo niente si muove neanche sul piano puramente ipotetico e propositivo.
La crisi della scuola italiana è davvero lo specchio della crisi di tutta la nostra società e dello Stato. L’ideologia dell’uguaglianza universale (in parte sincera e in parte strumentale) non ha prodotto il buon governo, anzi è stata la copertura ideologica del malgoverno dello Stato, basato su una selezione strumentale e clientelare del personale scolastico e non. E sulla rinuncia a gestirlo per le finalità del servizio pubblico.
Oggi lo stile verboso e propagandistico che sormonta l’inettitudine organizzativa reale dilaga. Il buon governo con soluzioni tempestive e adeguate ai problemi e sembra morto definitivamente nella scuola. Potrà rinascere? Non sono in grado di dare una risposta a questa domanda.
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