Michela Marzano, scrittrice, filosofa ed ex deputata del Pd, presentando Stirpe e vergogna, il suo ultimo libro, racconta che la figura del nonno, fascista convinto dall’inizio alla fine della sua vita, le ha causato una tale intima vergogna da impedirle di diventare mamma.
“Per me – ha spiegato nei giorni scorsi alla rassegna ‘Più libri più liberi’ di Repubblica – il mio vero dovere era raccontare la mia storia, sciogliere la mia vergogna. Quella che mi ha impedito di diventare mamma. Perché il punto di partenza è quello, avevo tanta vergogna, talmente tanta da pensare di non avere il diritto di far nascere un bambino o una bambina, perché avrei trasmesso qualcosa di sbagliato”.
Sono parole agghiaccianti che fanno riflettere. Non si capisce se ad impedire alla Marzano di diventare madre sia stata la paura che il figlio potesse nascere già marchiato dal pregiudizio di avere un nonno fascista (ma avere una mamma del Pd e riconosciuta intellettuale di sinistra non è una medicina sufficiente?) o credere che l’ideologia fascista sia qualcosa di trasmissibile per via ereditaria durante la combinazione del Dna maschile con quello femminile.
A noi persone qualsiasi non è possibile conoscere una risposta che riposa nelle pieghe più intime dell’animo della scrittrice. Rimane però chiaro il compito di dover ancora faticare non poco per emanciparsi da quel pensiero arcaico che fa ricadere sui figli le colpe dei padri. In nome della tranquillità si ricerca un capro espiatorio per esorcizzare paure, per trovare scenari ideologici dove crocifiggere persone che non possono difendersi, senza rendersi conto che in questo modo si uccidono i propri sogni esistenziali e le proprie prospettive di vita: quali, per esempio, il voler essere madre. Se è giusto condannare il fascismo come ideologia, è errato cadere nell’ideologia opposta, in quella cecità che vede il nemico ovunque e vieta alle persone di vivere ed essere ciò che vogliono essere.
Prima che finisca l’anno, ricordiamoci che il 2021, oltre a commemorare i due secoli della nascita di Dostoevskij, i sette secoli dalla morte di Dante e il centenario della nascita di Sciascia portava con sé anche il 25mo della morte di Iosif Brodskij. Questo russo che dovette scappare dall’Unione Sovietica, il 18 dicembre del 1988 pronunciò un famosissimo discorso ad Ann-Harbor davanti ai laureandi dell’università del Michigan noto come “la regola di vita”.
In esso, tra il resto, consiglia di evitare con assoluta determinatezza di attribuirsi “lo status di vittima”. “Tra tutte le parti del corpo – ecco le sue parole – state più attenti al vostro dito indice; esso infatti ha sete di denuncia. Un dito puntato è il segno della vittima. In contrapposizione al medio e all’indice divaricati in segno di vittoria, l’indice puntato è sinonimo di resa. Per quanto sia atroce la vostra condizione cercate di non accusare di questo forze esterne: la storia, lo Stato, i superiori, la razza, i genitori, le fasi della luna, l’infanzia, lo svezzamento, eccetera. Nel momento infatti in cui voi riponete la colpa in qualcosa indebolite l’intima determinazione a cambiare alcunché. È possibile anche affermare che quel dito assetato di denuncia oscilli così accanitamente perché la vostra determinazione non è sufficientemente solida”.
Parole sacrosante, soprattutto se dette da uno che è stato nei gulag, e che è bene rileggere in occasioni come queste.
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