In un paese di soli quattro milioni e mezzo di abitanti negli ultimi due anni circa 200mila persone sono fuggite davanti al collasso economico del Libano. Si tratta di appartenenti a quello che una volta era il cosiddetto ceto medio, benestante, ma che oggi non esiste più, visto che secondo dati Onu il 75% della popolazione residente vive sotto la soglia di povertà. “Una situazione” ci ha detto in questa intervista Camille Eid, giornalista libanese residente in Italia e collaboratore di Avvenire, “resa evidente anche dal basso numero di iscritti alle prossime elezioni nazionali, se mai ci saranno davvero. Anche il numero dei passaporti emessi supera il milione, la gente che ha la possibilità di lasciare il paese non esita a farlo”.
C’è poco da aggiungere davanti a questo disastro, se non che in un quadro così la Francia, di cui il Libano è stato per anni un protettorato, preferisce vendere aerei militari ai paesi arabi del Golfo piuttosto che prendere le parti di Beirut. Lo scorso agosto, infatti, George Kordahi, a pochi giorni dall’insediamento come ministro libanese dell’Informazione, aveva “osato” criticare l’Arabia Saudita per la guerra che da anni conduce contro lo Yemen, definendola una guerra di aggressione.
Immediata la reazione di Riad, che ha interrotto ogni rapporto con Beirut. Macron, che nei giorni scorsi si è recato in visita nei paesi del Golfo e anche a Riad, si è schierato con l’Arabia, chiedendo al governo libanese le dimissioni immediate di Kordahi, cosa che è avvenuta, e così, ci ha detto ancora Eid “si è riaperto uno spiraglio di dialogo diplomatico, ma non economico, tra i due paesi”.
Secondo il centro di ricerca Information International basato a Beirut, in due anni circa 200mila libanesi hanno lasciato il paese. È una fuga di massa ormai?
Sì, c’è poco da aggiungere a tal proposito, chi ha i soldi per andarsene se ne va. Lo testimonia anche la crescente richiesta di passaporti, ormai arrivata a un milione. La carenza di beni e servizi essenziali e la lira locale che continua a perdere il suo valore rispetto al dollaro statunitense non lasciano molte speranze, la gente fa fatica a sopravvivere.
Dal punto di vista politico si registra qualche novità?
Qualcosa si è sbloccato sul fronte della crisi con i paesi del Golfo dopo che Macron ha consigliato al ministro dell’Informazione di dimettersi alla vigilia della sua visita a Riad. Macron e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman hanno telefonato al primo ministro libanese Najib Mikat, un colloquio che ha riaperto la finestra dei rapporti. Hanno ovviamente avanzato richieste precise a Mikat: nel comunicato finale dichiarano che il Libano deve limitare l’uso delle armi all’esercito e non alle varie milizie, secondo le risoluzioni Onu. Inoltre è stato detto che Arabia Saudita e Libano vogliono impegnarsi pienamente per ripristinare le relazioni.
E il governo? E’ sempre diviso?
Dopo due mesi non è ancora tornato a riunirsi. Nonostante sia un governo di emergenza, hanno lavorato per un mese e adesso sono due mesi che ogni ministro si muove per conto suo.
Ci puoi ricordare i motivi di questa impasse?
Il primo motivo era che i ministri sciiti volevano le dimissioni del giudice che sta indagando sull’esplosione al porto di Beirut, perché hanno paura che coinvolga Hezbollah nelle indagini. Poi ci sono state le parole critiche del ministro Kordahi contro Riad. Insomma, hanno paura che alla prima riunione possa saltare tutto, e preferiscono non riunirsi. Ogni ministro si muove per conto suo, una situazione ridicola se non fosse tragica.
C’è comunque una notizia positiva: nonostante la crisi, le scuole cattoliche, che sono l’ossatura del sistema educativo libanese, riescono in qualche modo a rimanere aperte. È così?
Sì, anche se tra mille difficoltà. Francia e Germania a livello statale hanno inviato fondi, soprattutto la Francia, perché in Libano sono presenti decine di scuole francofone, che applicano il francese come seconda lingua. Sono stati mandati anche all’università gesuita di St. Joseph dei fondi che hanno permesso agli studenti di non interrompere gli studi. In Libano chi ha la possibilità di pagare in “fresh dollars”, moneta in contanti americana, riesce a pagare gli studi, ma sono essenzialmente le élite. Chi ha difficoltà, paga metà della retta in lire libanesi e l’altra metà in dollari a un cambio molto favorevole. A livello di scuole secondarie, però, la situazione resta grave, perché la retribuzione di un padre di famiglia basta solo per pagare i trasporti. Un libro oggi costa 150mila lire libanesi, è quindi impossibile per molti comprare i sette o otto libri necessari per gli studi, altrimenti finisce uno stipendio intero.
(Paolo Vites)
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