Diciannove contro otto: è l’esito del referendum con cui i dipendenti dello “store” Starbucks di Buffalo, a nord dello Stato di New York, hanno deciso l’istituzione di una rappresentanza sindacale. Chissà quale sarebbe stato il risultato di referendum fra tutti gli iscritti alla Cgil sullo sciopero generale indetto in Italia per il 16 dicembre.
La notizia su Starbucks – al solito – ha riscosso più eco a est dell’Atlantico: negli Usa la guerra dell'”unionisation” è quotidiana e infinita, spesso ignorata dai media. La stessa Starbucks è in trincea contro ogni conato di sindacalizzazione: non diversamente da ogni ogni grande gruppo “millennial”, a cominciare dai giganti tech. Il fronte esemplare – di qua e di là dell’Atlantico, – resta Amazon: dove l’ennesima “battaglia” è in corso in Alabama. Qui l’authority federale NLRB ha ordinato al gigante dell’e-commerce di tenere nuovamente un referendum sull'”unionisation”. Una prima consultazione svoltasi lo scorso aprile – e finita con un “no” al 66% -, secondo i lavoratori pro-sindacalizzazione sarebbe stata pesantemente manipolata dall’azienda.
Negli States soffia ancora forte il vento dei democrat radicali: decisivi nell’elezione di Joe Biden un anno fa, anche se non maggioritari nel loro stesso partito al Congresso. Qui la strategia “rooseveltiana” del Presidente procede fra ritardi e ridimensionamenti. Il piano di reinfrastrutturazione del Paese è stato sbloccato da un compromesso al ribasso su 1 solo trilione di dollari. L’altra punta di lancia “iper-democrat” della campagna elettorale di Biden – l’aumento del salario minimo a 12,5 dollari – procede principalmente per via volontaristica (per i dipendenti della Pubblica amministrazione federale).
In Europa, nel frattempo, il nuovo germanocentrismo della coalizione Semaforo sta scuotendo le strade dei “rider”: simboliche della “New Old Economy”, oltreché di tutte le diseguaglianze che fratturano garantiti e non, cioè “vecchi ricchi” e “nuovi poveri”, soprattutto nel post-Covid. Non è facile, su questo sfondo, catalogare la mossa a sorpresa di Cgil e Uil: fra l’altro a segnare una rottura forse storica e definitiva dell’asse fra le tre maggiori forze sindacali nazionali.
Il leader cigiellino, Maurizio Landini, ha una storia personale di radicalismo antagonista: ma principalmente a tutela dei metalmeccanici contro la grande industria, una vicenda ultrasecolare oggi quasi estinta. Vederlo scendere in piazza contro un Governo come quello presieduto da Mario Draghi e la sua Legge di bilancio di transizione, nell’anno primo del Pnrr, non è completamente leggibile. È evidente – e comprensibile – la sua voglia di recuperare un ruolo centrale nella rappresentanza di chi ha un lavoro pagato poco e senza garanzie (come i dipendenti di Starbucks di Buffalo). Ma anche a lui dev’essere evidente che si tratta di una battaglia più politica che sindacale: che le “union” possono giocare in asse con un progetto politico, come quello dei democrat Usa. Invece in Italia il leader del Pd, Enrico Letta, ha preso subito le distanze dalla Cgil e M5S – tuttora primo partito in Parlamento – ha guerreggiato per il Reddito di cittadinanza per chi non ha lavoro, non per il salario minimo per chi ha o trova un lavoro. Mentre nel Paese – già proiettato verso un nuovo appuntamento elettorale – la “battaglia per il lavoro”, per la creazione di nuovi jobs, non è intestata a nessuno. Prova a farla sua Landini, ma quanto la sua “old” Cgil può realmente aspirare a tutelare gli interessi di un universo esploso?
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