La Siria, che era un mosaico di culture, etnie e religioni diverse che vivevano in pace e condivisione, oggi è una terra desolata, dove quel mosaico si è frantumato e dove è scoppiata una bomba peggiore di tutte quelle che sono cadute durante dieci anni di guerra. Così descrive il paese, dove da tredici anni è nunzio apostolico, il cardinale Mario Zenari. “L’amata e martoriata Siria”, come la definì più volte papa Francesco, è un paese dove il 90% della popolazione vive sotto la soglia di povertà: “Tutti speravamo che, una volta finita la guerra, seguisse una ripresa economica, si ricostruisse quanto distrutto dalle bombe, si potesse tornare a lavorare, ci fosse cibo per tutti, ma non è stato così. L’unica cosa che qui galoppa è la povertà” ci ha detto in questa intervista.
Mezzo milione di morti dovuti al conflitto, cinque milioni e mezzo di rifugiati siriani nei paesi vicini, sei milioni che vagano di villaggio in villaggio, cercando situazioni degne per poter vivere: è il quadro della Siria in questo Natale, “dove, anche se abbiamo celebrato le liturgie a mezzanotte, le chiese sono mezze vuote, perché tantissimi cristiani sono scappati dalla Siria” dice ancora monsignor Zenari: “Tutto quello che chiediamo è che l’Occidente non si dimentichi di noi. Nessuno parla più della Siria”.
Qual è la situazione attuale della Siria?
Continua a peggiorare, tutto è bloccato: il processo di pace, la ricostruzione dei villaggi e dei quartieri distrutti dalla guerra. Non è in corso alcuna ripresa economica, la povertà è l’unica cosa che si muove, che cammina spedita.
Come sopravvivono i siriani?
Mancano scuole, ospedali, personale medico-infermieristico, per di più in piena emergenza Covid-19. Mancano fabbriche e attività produttive. Sono spariti interi villaggi e quartieri, rasi al suolo e spopolati. È stato dilapidato il patrimonio archeologico, che attirava visitatori da ogni parte del mondo. È stato intaccato gravemente il tessuto sociale, ossia il mosaico di convivenza esemplare tra gruppi etnici e religiosi.
I siriani continuano a fuggire dal paese?
Sì, la gente, soprattutto i giovani, chiede di poter partire, non vede futuro. La prima richiesta è di poter emigrare. Sono in Siria da tredici anni e anche durante la guerra la gente aveva un po’ di speranza. Dicevano: la guerra finirà e dopo riavremo lavoro e pane. La guerra è finita, ma è caduta una bomba più grande che non fa rumore e questa bomba è la povertà, che oggi colpisce il 90% della popolazione. Questo è il Natale che la Siria si appresta a vivere.
In concreto, quali sono le condizioni di vita?
Durante il giorno manca spesso l’elettricità, la gente fa code lunghissime davanti ai panifici, dove il governo ha imposto prezzi calmierati e il pane è spesso l’unico cibo disponibile. Si vive al freddo, perché il gasolio per riscaldamento costa tantissimo e spesso manca, e pensare che la Siria ha enormi giacimenti di petrolio, ma è tutto bloccato.
Le sanzioni economiche dei paesi occidentali sono la causa di tutto questo?
Le sanzioni rappresentano un grosso danno, però c’è anche la corruzione, come in tante parti del mondo, e il malgoverno. Purtroppo la comunità internazionale è divisa, il processo di pace, tracciato dalla road map della Risoluzione 2254 del 2015 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sembra sia a un punto morto. Ci sono stati aspri dibattiti e divisioni in seno al Consiglio di sicurezza, si è fatto ricorso all’uso del diritto di veto una quindicina di volte da parte di qualche membro permanente. Tutto questo impedisce la rinascita della Siria.
Come sono i rapporti tra cristiani e musulmani?
La Siria è sempre stata un esempio, un mosaico di convivenza tra culture e religioni diverse. Io stesso posso viaggiare, muovermi, posso andare nelle moschee e trovo grande rispetto, ma oggi questo mosaico è stato danneggiato dopo dieci anni di guerra. Speriamo si possa riparare e che la gente possa vivere tra diverse etnie e gruppi religiosi in pace e armonia.
A causa del Covid, le chiese a Natale sono aperte?
Sì, non c’è problema per questo. Negli anni peggiori della guerra bisognava anticipare la messa di Natale alle cinque del pomeriggio. Oggi il problema è che le chiese sono mezze vuote, più della metà dei cristiani se ne sono andati, soprattutto i giovani. È un Natale che fa riflettere, quando si deve celebrare in una chiesa mezza vuota. I giovani sono le migliori risorse di un paese, sono il futuro della società e della Chiesa. Purtroppo la Siria e la Chiesa hanno perso gran parte di questo impareggiabile patrimonio.
Che parola si sente di dire ai cristiani siriani e a quelli dell’Occidente in occasione del Natale?
I cristiani in Siria sono stanchi di parole e hanno ragione. L’unica cosa che possiamo fare è agire, stare vicini a chi soffre di più, portare con loro il peso di questo dramma. Ai cristiani dell’Occidente chiedo di non dimenticarsi di noi. Non si parla più della Siria, durante la guerra mi chiamavano da tutto il mondo, oggi non più. Si parla della crisi in Libano, come è giusto che sia, del Covid, dell’Afghanistan, ma non della Siria. Quello che posso dire per questo Natale è: non dimenticatevi di noi, non lasciate morire la speranza.
(Paolo Vites)
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