È facile, comodo, ma disonesto dare risposte semplici a problemi complessi. In primo luogo, perché i problemi rimangono irrisolti, ma soprattutto perché con questa pratica si riduce la politica a un insieme di slogan. Che cos’è la piattaforma dello sciopero generale proclamato da Cgil e Uil se non un insieme di slogan, di parole d’ordine sottratte alle striscioni delle manifestazioni di piazza? Vogliamo parlare della madre di tutte le questioni: l’occupazione? Cgil e Uil chiedono di “contrastare la precarietà” e magari anche di “impedire le delocalizzazioni” (manu militari?). Questa iniziativa ha catalizzato l’entusiasmo di tanti “cattivi maestri” e di ex suonatori del piffero della rivoluzione, che si sono sprecati nel denunciare le diseguaglianze, i salari da fame o comunque più bassi di quelli di altri Paesi europei (guardandosi bene dal confrontare i livelli di produttività che da noi sono ancora più bassi dei salari).
Il declino culturale delle risposte semplici ha contagiato i sindacati, in particolare la Cgil che pure continua a far parte della mitologia del mondo del lavoro. Alla fine degli anni ‘50 del secolo scorso la confederazione fu impegnata in un grande dibattito (in parallelo con quello in corso nel Pci). Si era ai tempi del miracolo economico, ma vi erano profonde divergenze nell’analisi della situazione: un filone di pensiero sosteneva che l’Italia rimaneva un Paese povero, vittima di un capitalismo “straccione”; l’altra tesi era improntata a valutare le modifiche intervenute, sia pure con limiti e contraddizioni e solo in alcune aree del Paese, nell’organizzazione del lavoro e nei rapporti economici e sociali. Alla fine fu questa tesi a prevalere e portare la Cgil a condividere nuovi indirizzi nella contrattazione, più articolati e specifici.
Ovviamente ogni epoca ha le sue caratteristiche, anche per la statura dei gruppi dirigenti; tuttavia, è deleterio che delle grandi organizzazioni sindacali riducano a un’uniformità quasi plebea un mondo del lavoro che ha tante sfaccettare. Osserviamo con attenzione quanto è accaduto durante la crisi economico-produttiva indotta dai vincoli esterni dell’emergenza sanitaria. I sindacati hanno rivendicato un blocco dei licenziamenti che con le proroghe è durato ben 500 giorni. L’esperienza ha evidenziato che la principale conseguenza è stato il blocco delle assunzioni e che nel complesso sono venuti meno un milione di posti di lavoro, soprattutto con rapporti a termine o flessibili. I sindacati lamentano che le nuove assunzioni avvengono con contratti da loro definiti precari, ma non hanno una spiegazione plausibile per il fenomeno che si è verificato alla fine del blocco. Si temevano milioni di licenziamenti, sono in corso invece centinaia di migliaia di dimissioni.
Citiamo dei dati del ministero del Lavoro: “La crescita dei rapporti cessati riguarda tutte le cause di cessazione: tra queste l’aumento maggiormente significativo – scrive il Lavoro – è costituito dalle Dimissioni (pari a 85,2%) mentre una crescita più contenuta si registra nei Pensionamenti (+2,0%) nelle Altre cause (+12%) e nei licenziamenti (+17,7%, pari a +17 mila)”. Claudio Negro della Fondazione Anna Kuliscioff ha sottolineato di recente citando un’inchiesta del Corriere della Sera che, oltre 206mila lavoratori dipendenti dell’area milanese si sono volontariamente dimessi dal proprio posto di lavoro negli ultimi 18 mesi. Si tratta, ha scritto il Corriere della Sera, citando la Cgil milanese, in prevalenza di giovani, con buon livello professionale e ben inseriti in azienda, che cercano ambienti di lavoro più aperti sul piano delle relazioni, più capaci di valorizzare e premiare le competenze.
Si è forse avverata la profezia di Pietro Ichino? Ovvero posso essere i lavoratori a scegliersi il datore? Ovviamente non è così ovunque. Non intendiamo trarre valutazioni di carattere generale da casi particolari (lasciamo questa prassi ai sindacati e ai talk show). Ma anche tali casi esistono in un Paese che non ha bisogno di Landini e Bombardieri e dei loro scioperi naif per immaginare il proprio futuro.
Poi c’è un altro problema: in Italia c’è domanda di lavoro che non trova rispondenza nella qualità dell’offerta, quando va bene; spesso capita che non vi sia un minimo di disponibilità neppure sul piano quantitativo. I sindacati sostengono che ciò accade perché le retribuzioni sono basse (dimenticando che sono loro a stipulare i contratti collettivi), ma non spiegano come questi “renitenti” al lavoro povero, recuperano altrimenti il reddito a cui rinunciano. Inoltre come la mettiamo con i “posti vacanti”? Così l’Istat definisce i posti di lavoro retribuiti (nuovi o già esistenti, purché liberi o in procinto di liberarsi) per i quali il datore di lavoro cerca attivamente al di fuori dell’impresa un candidato adatto ed è disposto a fare sforzi supplementari per trovarlo .Il tasso di posti vacanti è il rapporto percentuale fra il numero di posti vacanti e la somma di questi ultimi con le posizioni lavorative occupate. Tale indicatore può fornire informazioni utili per interpretare l’andamento congiunturale del mercato del lavoro, dando segnali anticipatori sul numero di posizioni lavorative occupate.
Nel terzo trimestre 2021, il tasso di posti vacanti destagionalizzato – per il totale delle imprese con dipendenti – si attesta all’1,8%, lo stesso valore si registra per le imprese dei servizi e sale all’1,9% per quelle dell’industria. Il confronto con il trimestre precedente segnala un incremento nell’industria (+0,3 punti percentuali) e un decremento nei servizi (-0,2 punti percentuali). Per le imprese con almeno 10 dipendenti, il tasso di posti vacanti è pari all’1,4%, frutto di un incremento simile nei comparti dell’industria e dei servizi (+0,1 punti percentuali).
Infine, nel ddl di bilancio sono state introdotte alcune modifiche al Reddito di cittadinanza (RdC). Ma gli aspetti più interessanti con riguardo a questa esperienza, si trovano nel report del Comitato scientifico presieduto da Chiara Saraceno e in modo ancor più approfondito in uno studio dell’A.N.NA (l’associazione dei navigator, i soli che stanno pagando il conto del fallimento del pilastro politiche attive). Il vero limite del RdC è stato, dunque, la pretesa di combattere con la stessa misura tanto la povertà quanto il precariato. Avendo a disposizione, però, una platea di persone da occupare offrendo loro ben tre posti di lavoro in successione, che in realtà non sono “occupabili”. Per restare nel campo dell’ufficialità riportiamo le valutazioni espresse dal Comitato scientifico: “I beneficiari di RdC, anche quando teoricamente ‘occupabili’ spesso non hanno una esperienza recente di lavoro ed hanno qualifiche molto basse. Inoltre, i settori in cui potrebbero trovare un’occupazione – edilizia, turismo, ristorazione, logistica – sono spesso caratterizzati da una forte stagionalità. I criteri attualmente utilizzati per definire congrua, e quindi non rifiutabile, un’offerta di lavoro non tengono conto adeguatamente di questi aspetti. Occorre introdurre criteri che, salvaguardando la dignità delle persone e il diritto ad un equo compenso, siano più coerenti con le caratteristiche dei beneficiari e con l’obiettivo di favorirne la costruzione di un’esperienza lavorativa”.
In sostanza vi è la necessità di un lavoro preliminare che consenta l’accesso alle attività di addestramento e formazione, in mancanza del quale il beneficiario del RdC non sarebbe in grado di avvalersi della stessa attività formativa. Si tratta di mettere in campo sedi di acquisizione di una nuova “alfabetizzazione” che non può più accontentarsi di saper scrivere, leggere e far di conto (ammesso e non concesso che questi siano livelli acquisiti), ma che deve portare i lavoratori e i cittadini a familiarizzare con la digitalizzazione, le lingue straniere, la tutela dell’ambiente; in una parola a combattere l’analfabetismo della società di oggi (e magari anche quello della società di ieri).
Certo che è più facile scioperare che affrontare questi problemi ognuno con le sue caratteristiche e specificità che non lasciano spazio a un’arbitraria reductio ad unum di stampo populista e protestatario.
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