Due mosse avvenute ieri in casa Pd potrebbero avere aperto una nuova pista da seguire in vista del voto parlamentare per il nuovo capo dello Stato. Sono episodi geograficamente lontani, ma che messi uno accanto all’altro aprono a scenari finora trascurati. A Roma il segretario Enrico Letta ha chiuso la porta alla candidatura di Silvio Berlusconi: ha detto che i presidenti eletti sono sempre stati uomini delle istituzioni, non leader di partito, e che per il Quirinale il profilo più adeguato è quello di una personalità che riscuota un largo consenso.
Nel 2015 Sergio Mattarella fu eletto dal centrosinistra dopo che Matteo Renzi e Silvio Berlusconi ruppero sul nome di Giuliano Amato che Forza Italia, allora molto più forte di oggi, avrebbe tranquillamente votato. In questi anni Mattarella è riuscito a riscuotere un consenso ampio e trasversale, il che va indubbiamente a suo merito; ciò non toglie che le maggioranze risicate, oggi ripudiate da Letta, sette anni fa fecero molto comodo al suo partito. I motivi dell’altolà al Cavaliere appaiono dunque un tantino pretestuosi, il che comunque non toglie di mezzo la bocciatura.
A Bruxelles, invece, il presidente dell’Europarlamento David Sassoli ha annunciato di non volersi ricandidare alla guida dell’assemblea per non compromettere la “maggioranza Ursula”, cioè l’accordo tra popolari e socialisti più qualche gruppo minore sul quale si fonda questa legislatura Ue. In Italia la maggioranza Ursula raccolse Pd, Forza Italia e M5s in un abbraccio che Matteo Salvini indicò come la svolta che fece cadere il primo governo Conte. Sassoli si fa da parte per essere avvicendato da una presidente popolare e tutelare quello schema che segnò l’avvicinamento tra Pd e M5s (più azzurri) con l’esclusione della Lega.
Nel Parlamento italiano il centrosinistra con il M5s ha 467 voti e il centrodestra 441 contro una maggioranza (dal quarto scrutinio) di 505. Forza Italia conta su 79 deputati e 50 senatori, in tutto 129. La maggioranza Ursula sarebbe dunque forte, sulla carta, di 546 voti: Giorgio Napolitano il 10 maggio 2006 ne ebbe 543 da un’assemblea eletta appena un mese prima (9-10 aprile), senza sollevare particolari scandali.
Matteo Renzi resterebbe fuori dalla partita se davvero si concretizzasse questa coalizione per il Colle? Difficile pensarlo. E con i suoi 43 parlamentari si arriverebbe a 589. Con qualche rappresentante delle Regioni, dei vari gruppi minori e dei senatori a vita non si andrebbe troppo lontano dal pacchetto di 665 suffragi che nel 2015 portò Mattarella alla presidenza.
Il nodo da sciogliere, a questo punto, è la posizione di Forza Italia. Di fronte al definitivo stop alla sua candidatura, non è detto che Berlusconi faccia come Letta e sbatta la porta in faccia alla controparte. Più probabile che colga l’occasione per dare lui le carte, cioè proporre un nome accettabile dai giallorossi. Che sicuramente non può avere il profilo di uno come Sassoli o Paolo Gentiloni, candidati di bandiera della coppia Letta-Conte. Ma potrebbe essere un Giuliano Amato, forse l’unico non berlusconiano che Berlusconi voterebbe senza turarsi il naso – come avrebbe fatto nel 2015 se non fosse saltato il patto con Renzi – anche in virtù dell’antico legame con Bettino Craxi.
La maggioranza Ursula che tanto piace a Bruxelles potrebbe dunque evolvere nella maggioranza Giuliano, con Berlusconi ancora al centro dei giochi. E Salvini condannato a restare ai margini assieme a Giorgia Meloni.
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