Domani Mario Draghi incontra il neo-cancelliere tedesco Olaf Scholz il quale s’è già recato a Parigi dal Presidente Emmanuel Macron. Non è stata soltanto una visita di cortesia così come non lo sarà quella romana. Sabato primo gennaio la Francia assume formalmente la semestrale presidenza di turno dell’Unione europea, durante la quale si terranno anche le elezioni presidenziali. E Macron non è davvero sicuro di vincere perché l’insidia non viene dalla destra estremista, ma dai Repubblicani guidati per la prima vota da una donna di spessore come Valérie Pécresse.
Quanto a Draghi nessuno è in grado di prevedere se sarà ancora a palazzo Chigi oppure se parteciperà alla gara per il Quirinale che oggi come oggi si presenta irta di ostacoli perché apparentemente nessun partito lo vuole al posto di Mattarella. L’Economist nel designare l’Italia Paese dell’anno intinge la penna a favore di una continuità che non è affatto garantita: da una parte il gioco della politica, dall’altra le incertezze economiche e sanitarie, fanno pensare a un 2022 pieno di incognite.
Non c’è dubbio che l’irrompere della variante Omicron ha riaperto l’angoscioso capitolo dell’emergenza. Sembrava che ne fossimo usciti e, di conseguenza, il prossimo anno potesse essere concentrato sull’attuazione del Pnrr da un lato e dall’altro su un ritorno progressivo alla normalità, quella normalità che Draghi ha detto di vuole difendere a tutti i costi, con le unghie e con i denti, un nuovo whatever it takes. Invece il pericolo di nuove chiusure s’incrocia con le difficoltà di approvvigionamento, con la spinta inflazionistica che viene dalle materie prime, a cominciare dal gas, con un rallentamento della produzione manifatturiera che aveva tirato, soprattutto grazie alle esportazioni, il boom di quest’anno. Dunque, il nocchiero deve tenere ben saldo il timone, ed è del tutto sensato chiedere a Draghi di restare a palazzo Chigi. Ma siamo sicuri che ci rimarrà?
Chi garantisce che un sistema politico rissoso non aspetti l’elezione del nuovo Presidente per arrivare a una sorta di resa dei conti? Chi può giurare che la Lega o qualcun altro non ritiri la fiducia, magari utilizzando un’occasione più o meno pretestuosa? La risposta è semplice: nessuno. Ben diverso sarebbe se Draghi venisse portato al Colle da un accordo ampio, persino più largo, in un modo o nell’altro, della stessa maggioranza attuale. A quel punto sarebbe del tutto conseguente arrivare alla fine naturale della legislatura e poi confrontarsi alle urne, con una battaglia aperta, ma civile. E la stessa politica economica potrebbe affrontare senza scossoni un cambiamento che appare inevitabile.
È chiaro, allo stato attuale, che ci saranno cambiamenti nella politica monetaria delle Banche centrali. La Banca d’Inghilterra ha già rialzato sia pur di poco i tassi, la Federal Reserve lo ha minacciato nel tentativo di raffreddare la febbre inflazionistica, quanto alla Bce continua a considerare temporanea la fiammata dei prezzi, tuttavia si trova in una doppia morsa: quella della congiuntura in bilico tra inflazione e bassa crescita (già si parla di stagflazione) e quella tra falchi e colombe. Certo è che non comprerà più titoli pubblici e privati come in passato, il programma di acquisto finirà a marzo anche se in modo progressivo. Per l’Italia è un problema serio: nel 2020 Christine Lagarde ha coperto tutto il deficit italiano, quest’anno siamo al 75%. La Banca centrale europea detiene titoli di stato tra vecchi e nuovi per oltre 500 miliardi di euro, è evidente che non li venderà, ma il Tesoro si troverà senza paracadute e dovrà fare i conti con il mercato. Veniamo così alla visita di Scholz.
Draghi e Macron si sono già espressi per una riforma del Patto di stabilità. Nel suo intervento alla Camera il presidente del Consiglio ha detto che non è servito a raggiungere i suoi obiettivi ultimi e ha messo in difficoltà i paesi più fragili; che la sua riforma deve essere coerente con il programma di trasformazione strutturale dell’economia europea avviato con il Next Generation Eu, quindi gli investimenti del piano debbono restare fuori; ai quali ha aggiunto gli investimenti per la difesa. Come ha spiegato Domenico Lombardi su ilsussidiario.net, “l’obiettivo minimo che Italia e Francia debbono portare a casa è quello di riconoscere un regime speciale alle spese per gli investimenti che l’Europa ci chiede di realizzare con il Next Generation Eu”. Sarà decisivo capire la posizione della Germania. Il ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner ha messo l’accento sulla crescita rispetto alla stabilità pura e semplice, sembra quindi allontanarsi dalle posizioni dei “frugali” i quali stanno perdendo il sostegno chiave dell’Olanda. Il Premier Rutte ha varato un programma di spesa pubblica e taglio delle tasse che certo non mette a rischio un bilancio pubblico sano, ma s’incammina decisamente sulla strada neokeynesiana che prima aveva avversato apertamente. Insomma, la partita è aperta e i giocatori stanno cambiando schema rispetto ai vecchi assetti tattici.
L’Italia può tirare un sospiro di sollievo? Fino a un certo punto. Gli esami non finiscono mai. Paradossalmente sarà chiamata come e forse ancor più di prima a superare la prova più importante: dimostrare che l’abilità nell’affrontare (pur con tutti i limiti, gli errori, gli alti e bassi) l’emergenza sanitaria e nel liberare le sue notevoli risorse economiche a lungo compresse trova conferma nella capacità di realizzare le riforme e gli investimenti. Per la prima volta l’Italia chiede all’Ue più di quel che dà, quindi i Paesi chiamati ad aprire il portafoglio inforcheranno gli occhiali doppi per osservare quel fa il Governo, quel che fanno le imprese, quel che fa un sindacato diviso tra chi pensa di privilegiare il consenso sul conflitto e chi sembra non aver capito che siamo ancora piena emergenza. Domani Scholz parlerà da amico, da socialdemocratico e da tedesco, ma soprattutto da Cancelliere. La Germania con l’inflazione che evoca ataviche paure, con un’economia che sembra aver perduto l’energia degli ultimi anni e con una leadership incerta dopo l’addio di Angela Merkel, non farà sconti nemmeno agli amici.
Chi evoca già l’asse Roma-Parigi-Berlino tenga conto che non è certo un asse di ferro.
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