“I miti hanno aspettato Lui, in cui il desiderio è diventato realtà”. Queste parole di Benedetto XVI nel primo libro su Gesù di Nazaret ci colpiscono particolarmente. A Natale, salvo frange decisamente minoritarie, c’è un fervore di attesa affettuosa, calorosa, che si manifesta esplicitamente in luci, doni, stelle, presepi, commozione. Mi sembra tutto molto bello e giusto: Gesù è nato in una stalla, ma i canti degli angeli, l’accorrere dei pastori destati dall’annuncio, la cometa, la carovana dei Magi coi loro regali non sono proprio un understatement.
E tuttavia per la maggior parte delle persone tutto si riduce ad una vecchia storia, al più una leggenda, un mito appunto. Ratzinger lo dice con forza: Gesù non è un mito, è un fatto reale, storico. Eppure sa anche valorizzare i miti degli antichi: non li considera solo una creazione folklorica o letteraria, ma vede in essi un’attesa, l’espressione di un desiderio che si compie con la venuta di Cristo, vede in essi, cioè, un’intuizione che ha il carattere della profezia.
Studiando i miti greco-romani e le loro trasposizioni letterarie, cogliamo qualche spunto. Dice Esiodo, descrivendo nella prima età degli uomini una situazione edenica: “gli uomini vivevano come dèi, col cuore tranquillo, liberi da fatiche e sventure… e morivano come colti dal sonno”: misteriosamente per questi primi uomini, cui natura elargisce i suoi doni per volere divino, la morte è solo un addormentarsi per divenire esseri venerabili, senza cioè passare per il travaglio dell’agonia.
La compagnia degli dèi protegge gli uomini da loro amati: così avviene, ci ricorda Pindaro, per Tantalo, che condivide la vita e l’amicizia divina, così per Bellerofonte, “l’irreprensibile, a cui gli dèi bellezza e fascino amabile / concessero”, dice Omero, tanto da proteggerlo da false accuse e imprese terribili; così per Odisseo e la sua famiglia, cui Atena sempre vigile dona protezione, consigli, aiuto concreto: “Io lo dirò, e tu ascoltami e comprendi / e dimmi se Atena insieme a Zeus padre / ci basterà, o se devo pensare ad un altro alleato”, è il monito di Odisseo, tornato ad Itaca, al figlio appena ritrovato.
Ma di fronte all’aiuto divino c’è sempre il rischio della decadenza e della colpa: le diverse età si susseguono peggiorando, gli amati come Tantalo e Bellerofonte peccano, Telemaco stenta a credere, con uno scetticismo che gli rende difficile avere la fede del padre.
Lo scetticismo non è solo dei personaggi. Trascorsa l’età arcaica di Omero, Esiodo, Pindaro, il desiderio di una compagnia divina si accompagna spesso alla delusione per l’indifferenza degli dèi. In Euripide Ippolito, che ha consacrato la castità alla dea vergine, così esprime la sua gioiosa fiducia: “Seguitemi, seguitemi cantando / la celeste figlia di Zeus / Artemide, a cui stiamo a cuore”. Ma quando il dramma si compie senza che la dea intervenga, il Coro commenta: “Il pensiero degli dèi, quando giunge nel mio cuore, grandemente porta via il dolore: ma mentre nutro la speranza di capire, vengo meno guardando i casi e i fatti dei mortali”.
Eschilo tuttavia vede nel dolore un dono divino, da parte di un dio, “chiunque mai sia”, al di sopra di tutti: “Zeus, chiunque mai sia, se a lui è caro con questo nome essere chiamato, con questo lo invoco. Non ho nulla da paragonargli se non Zeus, se veramente il vano peso dell’angoscia voglio gettare… lui che ha condotto l’uomo ad essere saggio, facendo sì che avesse valore imparare attraverso il dolore”.
E Sofocle, al termine della sua lunga vita, canta la fine meravigliosa di Edipo, compenso divino ad una vita travagliata: “Non lo uccise il purpureo fulmine di Zeus, né una tempesta marina sorta in quel tempo, ma o un inviato fra gli dèi, o l’abisso senza dolore della terra dei morti, apertosi propizio. L’uomo se ne è andato senza gemiti né soffrendo per malattie, ma in uno straordinario prodigio”.
Diversi secoli dopo, Virgilio fa dire ad Enea, quando la tempesta ha nuovamente allontanato la sua meta: “O amici, non siamo inesperti di mali già provati: o voi che ne avete sopportati di più gravi, dio porrà fine anche a questi… Tra casi sempre diversi, fra tante vicende rischiose, tendiamo verso il Lazio, dove il destino ci mostra una sede sicura”. Anche Enea ha peccato, si è allontanato dall’obbedienza al destino, ma è stato ripreso dagli dèi, ha recuperato la certezza della profezia ricevuta nel corso del viaggio: “Il destino troverà la strada, e Apollo se invocato sarà presente”.
È la presenza degli dèi, la loro compagnia, il loro aiuto, perfino la loro punizione come segno di un’attenzione, che caratterizza il desiderio dell’uomo antico, comunque lo esprima, anche se lo vede disatteso e non riesce a crederci. È difficile rinunciare a questo desiderio: chi rifiuta l’intervento divino è come costretto a sostituirvi altro: così Lucrezio, per cui gli dèi non si curano degli uomini, vi sostituisce un uomo, Epicuro: “Fu un dio, un dio… colui che per primo trovò quel criterio di vita che chiamiamo sapienza”.
È ancora Ratzinger nel libro sull’infanzia di Gesù a ricordare la profezia virgiliana della quarta ecloga, cogliendone il legame con l’incarnazione: “Di questa atmosfera di attesa della novità fa parte anche la figura della vergine, immagine della purezza, dell’integrità, della partenza ‘ab integro’. E ne fa parte l’attesa del bambino, ‘germoglio divino’”.
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