Il leggendario Jack Welch, uno dei manager di maggior successo della storia dal 1981 al 2001 a capo della General Electric portata da 12 a 410 miliardi di dollari di valore di borsa, nominato nel 1999 “Manager of the Century” dalla rivista Fortune, affermava che non sono i values scritti sulle slide del company profile, ma sono le reali convinzioni (beliefs), che una persona si forma lavorando quotidianamente in un certo ambiente, a determinare la mentalità e la cultura aziendale e quindi gli effettivi comportamenti sul lavoro e i conseguenti risultati. Lui stesso affermò che la sua efficacia come amministratore delegato per due decenni sarebbe stata misurata dalle prestazioni dell’azienda per un periodo analogo sotto i suoi successori: in realtà, già dopo pochi anni dal suo pensionamento, nonostante la spinta propulsiva di Neutron Jack (come veniva soprannominato, indovinate perché…) fosse stata codificata in sistemi di management execution oriented di grande efficacia e diffusione, GE ha imboccato una strada di declino e ridimensionamento non ancora del tutto risolta dopo 20 anni.
Fu vera gloria? Dobbiamo rimettere in discussione le sue scelte e lo stile di management tanto osannato in quegli anni di risultati strabilianti, con incrementi di ricavi e profitti trimestre su trimestre per due decenni consecutivi, della più grande conglomerata del XX secolo (presente ai vertici della capitalizzazione di borsa sia all’inizio che alla fine del secolo scorso)? Ai posteri l’ardua sentenza, direbbe il poeta. Ma una cosa è facilmente rilevabile: anche il più performante sistema di management, stile di leadership o piano strategico, non funziona da solo, ha bisogno di adeguati e creativi interpreti, cioè di persone educate a usare la ragione e la libertà in modo tale da seguire e talvolta anticipare la realtà che cambia. Vale insomma anche per la gestione aziendale la massima profetica di T.S. Eliot: “Essi [gli uomini] han sempre cercato di sfuggire dall’oscurità interiore ed esteriore fino a sognare sistemi talmente perfetti che nessuno avrebbe più bisogno di essere buono. Ma l’uomo così com’è adombrerà sempre ciò che l’uomo pretende di essere” (T.S. Eliot, Cori da “La Rocca’”).
Il “sogno” di un’azienda, di qualsiasi dimensione e settore, che funzioni a mo’ di tapis roulant quasi automaticamente avendo bisogno solo di periodici input provenienti dal vertice, ove sarebbe addensata la capacità di pensiero dell’organizzazione, è definitivamente (e fortunatamente) tramontato. La persona, con tutte le potenzialità ma anche le complicazioni che porta con sé, è riconosciuta ormai a tutti i livelli come il vero valore aggiunto, l’elemento distintivo e insieme la vera risorsa scarsa di ogni attività. Oggi le risorse scarse non sono più la tecnologia o le informazioni o il denaro, disponibili in abbondanza e a basso costo, ma è il talento e, in generale, il fattore umano in grado di realizzare gli obiettivi.
Tutte le più importanti sfide che le imprese si trovano davanti oggi per sopravvivere e crescere sul mercato (digitalizzazione, sostenibilità, globalizzazione, velocità di cambiamento dei mercati e innovazione continua, ecc.) richiedono innanzitutto un’educazione del capitale umano in termini di apprendimento continuo, curiosità, apertura, capacità di collaborare in team sempre più variegati culturalmente e geograficamente, ecc.: sono le ormai celebri soft skills (altrimenti chiamate “character”, “non cognitive” o “human” skills) di cui si parla in maniera crescente. Senza le soft skills, le hard skills, se non condivise, possono persino diventare un elemento di rischio e di freno per lo sviluppo dell’impresa; viceversa, la compresenza di entrambe produce un effetto positivo moltiplicatore, non appena addizionale, nel medio-lungo periodo. Non solo: ci si rende sempre più conto di quanto non ci si possa semplicemente più permettere, soprattutto nelle PMI, di cambiare le persone come fossero pezzi di un ingranaggio da aggiustare, se non altro per la difficoltà a reclutarne e formarne delle altre.
Una cultura aziendale che favorisca l’educazione di queste caratteristiche è perciò l’aspetto più urgente e più difficilmente copiabile da altre aziende: necessita di molto tempo perché coinvolge un cammino umano di assimilazione nell’esperienza quotidiana e costituisce quindi il vero fattore differenziante della competitività dell’impresa. La stessa pandemia non ha fatto che accelerare e amplificare ancora di più la portata della sfida: lo smart working pone per ogni organizzazione innanzitutto un problema di natura motivazionale e culturale, prima che procedurale e tecnologico, proprio per l’allentarsi dei tradizionali strumenti di controllo fisico del lavoro. Viene dunque toccato un punto della persona che ha a che fare con lo scopo stesso che lo muove nella vita e nel lavoro, i suoi desideri e le sue attitudini, le sue aspirazioni per sé e per l’impatto che il proprio lavoro può avere sul mondo e sulle generazioni future. A questo livello si pone la sfida radicale della sostenibilità e della responsabilità sociale d’impresa, se non vengono ridotte a maquillage di marketing: è in gioco invece la stessa ragion d’essere dell’impresa, la sua missione e di conseguenza la concezione delle strategie e dell’organizzazione.
Se la sfida educativa si colloca a questa profondità, come può l’impresa prenderne coscienza e affrontarla, senza ridurla a una tecnicalità formativa che non è in grado di toccare l’io fino in fondo? Come creare luoghi di lavoro che favoriscano l’educazione continua dei collaboratori, incrementino il senso di appartenenza e la voglia di innovare, dentro e non accanto alle attività di business?
Com’è stato sottolineato in un recente incontro organizzato dal Circolo del Sussidiario (con Julián Carrón e Ferruccio de Bortoli, moderato da Antonio Intiglietta), queste domande vengono spesso sottaciute o date per scontate in azienda. Come se solo la scuola, l’università e la famiglia dovessero farsi carico del problema.
Sappiamo bene che l’educazione avviene non per trasmissione di tecniche estrinseche, ma per la comunicazione di sé, quindi coinvolge tutta l’umanità degli attori in gioco: è l’accadere di una diversità in alcuni che attrae e spinge a un cambiamento anche in altri. E dove spesso si vede una passione per il proprio lavoro indipendente dalla retribuzione, una disponibilità a imparare continuamente da tutti, un quid gratuito per il gusto di far bene il proprio lavoro e renderlo davvero utile a chi ne fruirà. Quanti esempi positivi di questa gratuità abbiamo visto durante la pandemia, non solo nel personale sanitario o negli insegnanti, ma anche in manager e operatori di altri settori, anche attraverso una compromissione, un coinvolgimento e un’attenzione particolare nei confronti di collaboratori, partner e clienti! Non necessariamente tali persone devono essere ai vertici dell’organizzazione (anche se certo questo aiuterebbe): i leader devono però esserne consapevoli e avere la lealtà di indicare e valorizzare le persone dove questa leadership di fatto accade. In altre parole il vero leader (imprenditore o manager che sia) è colui che per primo riconosce l’esigenza per sé di essere continuamente educato. In questo consiste la sua vera autorevolezza, più ancora che nelle proprie capacità personali: molti importanti capi-azienda, uno fra gli altri Sergio Marchionne, hanno affermato che la loro principale abilità è stata quella di scegliere come collaboratori e valorizzare persone migliori di sé. Henry Mintzberg (studioso di strategia e management dell’Università di Montreal) diceva che le aziende non possono più concepirsi come una collezione di risorse umane guidate da CEO-superman, ma devono ripensarsi piuttosto come una comunità di esseri umani e che non si può più parlare di leadership senza parlare di communityship, cioè del senso di appartenenza a un luogo per cui la persona ritenga che valga la pena dare il meglio di sé.
Questa comunicazione di sé che muove altri si configura quindi come un avvenimento, paradossale a dirsi per una realtà di business, non programmabile né del tutto prevedibile perché l’azienda non può da sola generarlo. Sorge allora una possibile obiezione: è un fatto che va solo atteso, in un ambito come quello aziendale che dovrebbe pianificare tutto il possibile? Sì, se diamo al verbo attendere un’accezione non passiva (il Natale ce lo ricorda…). L’impresa, infatti, può certamente favorire le condizioni e assecondare questa diversità positiva che accade nella persona e, attraverso la persona, nell’impresa.
Alcune leve interne ed esterne all’azienda possono essere utilizzate a questo scopo, ne riportiamo alcuni esempi assolutamente non esaustivi già in atto in molti contesti:
– I criteri di scelta dei manager e dei leader: privilegiando quelli che sanno coinvolgere e far crescere i collaboratori invece degli “uomini soli al comando” che sembrano risolvere i problemi nel breve, ma poi lasciano macerie umane dietro di sé con problemi ancora più grandi e un pessimo clima aziendale;
– una missione e una visione strategica dell’impresa maggiormente all’altezza del desiderio di chi ci lavora di avere un’utilità per il mondo, non solo per gli azionisti, dell’attività che svolge (sostenibilità, responsabilità sociale, innovazione, ecc.);
– sistemi premianti aziendali che valorizzino non solo le performance di breve, ma anche l’impatto della persona sul capitale umano e la crescita dei collaboratori;
– sistemi di welfare aziendali che, per esempio, aiutino a coniugare la vita famigliare e quella lavorativa, in particolare per le madri, e che diano una copertura sanitaria ai collaboratori;
– collaborazione con enti no profit e caritativi, attraverso cui proporre esperienze di educazione alla gratuità ai propri collaboratori;
– collaborazione con soggetti esterni (start-up, enti di ricerca, ecc.) per far entrare nell’impresa una cultura di innovazione continua (Open Innovation);
– la salvaguardia in ogni modo dell’occupazione. E quando è necessario ristrutturarsi dismettendo impianti e licenziando persone, lo si fa con metodi atti a massimizzare la continuità occupazionale dei lavoratori coinvolti tramite reindustrializzazione e ricollocamento incentivato in altre aziende (approccio a cui si ispirano i più avanzati accordi sindacali e a cui fanno riferimento alcuni provvedimenti legislativi attualmente in discussione a livello governativo);
– ecc.
Come abbiamo già sottolineato, nessuno di questi strumenti esaurisce la profondità della sfida educativa per le imprese, di cui siamo solo agli inizi nel comprenderne natura, ampiezza e possibili percorsi di affronto. Nondimeno vi sono già molti casi virtuosi e tentativi in questa direzione che scommettono sul fatto che investire sull’educazione del capitale umano non sia solo un problema etico, ma che sia essenziale per la crescita e la competitività dell’azienda nel medio-lungo termine.
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