In un paese che con soli 209 casi positivi al Covid mette in lockdown due intere città, Xian e Yanan, con i loro complessivi 15 milioni di abitanti, accade anche – stando ai dati del National Bureau of Statistics – che le grandi imprese industriali vedano i loro profitti aumentare del 38% su base annua nel periodo gennaio-novembre, con 33 dei 41 settori in trend positivo. Nel solo mese di novembre, le principali aziende industriali hanno raccolto profitti per 805,96 miliardi di yuan, con un aumento del 9% rispetto all’anno precedente.
E anche i profitti combinati delle imprese statali cinesi sono aumentati del 40,2% su base annua attestandosi a oltre 4.140 miliardi di yuan (circa 650,5 miliardi di dollari) nei primi 11 mesi dell’anno, in base ai dati ufficiali del ministero delle Finanze.
Che la Cina, al di là del contraccolpo iniziale, dopo lo scoppio della pandemia abbia tratto vantaggi anche economici – è stato il primo paese al mondo a far registrare nel 2020 un trend positivo del Pil – è un sospetto che sembra sempre più avvalorato dai dati, anche se il caso Evergrande e il nuovo corso lanciato da Xi Jinping per una redistribuzione della ricchezza interna sembrano lasciare qualche piccola crepa. Per capirne di più abbiamo parlato con Giuliano Noci, prorettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano.
Si può dire quanto ha guadagnato l’economia cinese grazie al Covid?
È una domanda a cui si può tentare di rispondere non utilizzando una sola lente, perché ne servono diverse.
Resta il fatto che l’economia cinese è stata la prima nel 2020 a uscire dall’emergenza Covid. Perché?
La Cina, che è entrata per prima nella pandemia, è stata anche la prima a uscirne grazie alla modalità specifica con cui gestisce la pandemia, modalità che è figlia dei valori confuciani. La filosofia di Confucio, che permea la società cinese, si basa su ordine e gerarchia e sulla concezione dell’individuo valorizzato non in quanto tale, bensì come soggetto appartenente a una società.
Basta Confucio a spiegarne reattività e brillantezza?
No. Non si può dimenticare anche l’uso delle tecnologie digitali, il fatto che la Cina è una dittatura e la decisione del Partito comunista di fare un tracciamento a tappeto, senza alcun problema di privacy, concetto che non è costitutivo della società cinese. Tutto questo ha permesso una straordinaria capacità di reazione.
Un mix valido ancora oggi, dopo due anni di pandemia?
Lei lo sa che la città di Xian, 13 milioni di abitanti, è stata chiusa dal 23 dicembre per un lockdown dopo la scoperta di 40 casi? Ci sono fotografie impressionanti in cui si vedono centinaia di medici che quartiere per quartiere fanno i tamponi a tutta la popolazione…
Torniamo allora alle lenti cui accennava e partiamo dalla prima.
La prima lente ci consente di osservare il grande impatto negativo che il Covid, visto che è nato a Wuhan, ha avuto sul sistema di percezione delle persone e dei governi del mondo occidentale. Pechino è ossessionata dall’esigenza di avere un’immagine positiva in Occidente, soprattutto in Europa, anche per ragioni di convenienza specifica. Invece il Covid è stato un danno d’immagine che la Cina non avrebbe mai voluto subire. Tanto che in modo un po’ ingenuo hanno cercato, alla cinese, di riguadagnare un po’ di terreno perduto con la “diplomazia delle mascherine”. Non è evidentemente bastato, ma questo ha simbolicamente rappresentato quanto il Covid sia stato destabilizzante su questo fronte.
E se cambiamo lente, che cosa vediamo?
Con la lente dell’economia osserviamo come nel brevissimo periodo la Cina abbia conseguito qualche vantaggio – ha venduto, per esempio, molti farmaci o dispositivi medicali, visto che è tra i maggiori produttori del settore pharma –, ma soprattutto come il Covid abbia rappresentato per Pechino un fattore di accelerazione del momento della verità in cui il paese è da tempo entrato.
In cosa consiste questo momento della verità?
La Cina da tempo aveva sostanzialmente capito che doveva abbandonare una crescita quantitativa a tutti i costi, quella che l’ha portata ad aumentare in 20 anni la sua economia di 15 volte. Non era più un modello perseguibile: il costo del lavoro era troppo elevato, aveva creato sperequazioni reddituali eccessive, aveva determinato livelli di inquinamento ambientale inaccettabili per gli stessi cittadini cinesi. Già con “Made in China 2020-2025”, piano varato nel 2015, Pechino aveva deciso di cambiare il suo modello industriale di riferimento.
Il Covid cosa c’entra con questo turnaround generale?
Ha appunto accelerato questo fenomeno, portando il Pcc, nella persona di Xi Jinping, a dover anticipare talune decisioni che pongono oggi la Cina davanti a una situazione tutt’altro che facile.
Quali decisioni?
Innanzitutto, come mostra il caso Evergrande, ha dovuto intervenire, forse prima del previsto, per cercare di porre un freno allo sviluppo immobiliare. Attenzione: questo ha significato incidere sul settore che negli anni d’oro rappresentava il 30% del Pil cinese, un asset importantissimo del suo modello di sviluppo. In secondo luogo, Xi Jinping e il Pcc devono fare in modo che la Cina viri verso un’economia più matura, caratterizzata da una maggiore domanda interna. E in questo momento, paradossalmente, proprio l’incertezza determinata dal Covid sta deprimendo i consumi interni, facendo venire meno un volàno importante.
Detta in soldoni?
La Cina per aumentare la domanda interna deve mettere mano a profonde riforme, a cominciare dal suo welfare state.
Perché?
La domanda interna è debole anche a seguito del fatto che non c’è un sistema di welfare all’altezza: i cinesi tendono a risparmiare perché non sanno se avranno i soldi per curarsi quando saranno anziani.
Xi Jinping, quindi, è di fronte a una delicata transizione. Con quali possibilità di riuscita?
La chance che ha Xi è quella di compattare il paese attorno al Partito comunista e alla sua capacità di far percolare i messaggi nella società civile. E io credo che una Cina 2.0 potrà esserci se, e solo se, il Pcc rimarrà al comando e agirà ovviamente con lungimiranza, avviando, da un lato, la riforma del welfare e, dall’altro, incoraggiando non solo le State holding enterprises, ma anche – come peraltro ha sempre fatto, visto il peso che ricopre nell’economia cinese – lasciando libero spazio all’intrapresa privata.
A proposito delle grandi imprese di Stato cinesi, per il secondo anno consecutivo chiuderanno con profitti in aumento del 40%. Come si spiegano queste performance?
Un insieme di tre fattori spiega questo tasso di crescita. Primo: la base viziata dalla crisi pandemica, visto che nel 2020, specie nei primi mesi, queste imprese non avevano performato benissimo, a causa anche dei lockdown interni e di molti paesi dell’Occidente. Secondo: una quota significativa di queste imprese di Stato opera su servizi di base, legati a materie prime, energia e terre rare, che quest’anno hanno avuto un’impennata. Terzo: nel 2020 è stato varato in Cina un piano triennale per la completa ristrutturazione di tutte le imprese di Stato e nel 2021 il 70% ha già completato la riorganizzazione per recuperare efficienza e migliorare la profittabilità.
È vero che Pechino sfrutta il virus per chiudere i suoi porti, strategici per i commerci mondiali, e acuire una crisi che colpisce soprattutto l’Europa?
Che la Cina deliberatamente chiuda i porti per mettere in difficoltà altri paesi non è credibile. Anche perché in questo delicato momento di transizione ha una grande necessità di esportare, non è certo in una condizione di forza economica tale da potersi permettere di fare un braccio di ferro sulla logistica. In realtà, il porto di Ningbo è spesso chiuso per via della loro ossessione di avere zero Covid.
C’entrano forse le Olimpiadi invernali di febbraio 2022?
Esatto. Il Pcc non può assolutamente tollerare, pena la sopravvivenza interna, che non si celebrino le Olimpiadi per un problema di Covid. Devono essere un successo clamoroso. Ma per fini interni. I Giochi invernali chiudono una sorta di trittico dopo Pechino 2008 e l’Expo di Shanghai del 2010: devono dimostrare al popolo cinese che la Cina, dopo il secolo delle grandi umiliazioni, sta tornando a essere una grande potenza. Un paese compatto attorno alla figura di Xi Jinping, elogiato dal 90% dei cinesi, a cominciare dai giovani.
Come vede oggi la Cina?
Pechino ha almeno cinque vantaggi, cinque carte positive da giocare.
In concreto?
Il primo vantaggio: il mondo ha troppo bisogno della Cina, perché quest’anno rappresenta il 25% della crescita mondiale e il livello di interconnessione produttiva vede proprio nella Cina un attore economico fondamentale. Non si può emarginare Pechino come è stato fatto con l’ex Unione Sovietica, perché ciò creerebbe danni mostruosi anche in Occidente. Il secondo è la sua lungimiranza: l’80% dei diritti di produzione mondiali di terre rare è in mano ai cinesi, il che significa che tutte le energie rinnovabili e tutta la componentistica elettronica verranno influenzate dalla Cina nei prossimi decenni. Mentre l’Occidente si accapigliava sul petrolio, Pechino si accaparrava il petrolio dei prossimi decenni.
Sui rincari alle stelle di molte materie prime che ruolo ha giocato e sta giocando la Cina?
Ha avuto sicuramente un ruolo non secondario nella crescita dei prezzi delle materie prime, ma non è un fenomeno recente, è partito da lontano. La Cina è partita sulle terre rare già nel 2014, imponendo un contingentamento alla loro estrazione, tanto che ci sono state proteste delle imprese di Stato che operano in questo settore. Ora la Cina, temendo di essere isolata dal mondo occidentale a causa del Covid, negli ultimi 36 mesi si è accaparrata molte materie prime e ha rastrellato semiconduttori in giro per il mondo.
Il terzo vantaggio?
A dispetto della vulgata sulla “trappola del debito” innescata da Pechino in Africa, in realtà la Cina ha fatto anche molto soft power, costruendo molte relazioni di influenza in quello che sarà un continente chiave nei prossimi 50 anni.
E le ultime due carte positive in mano a Pechino?
Quarto vantaggio: l’Occidente stoltamente non ha imparato la ricetta di Nixon e di Kissinger. In piena Guerra fredda gli Stati Uniti per combattere l’Urss si sono alleati con la Cina. Oggi invece Biden sta facendo di tutto per avvicinare la Russia e la Cina. Un rapporto, tra l’altro, innaturale, visto che Mosca e Pechino si sono sempre guardate con sospetto. Dovrebbe fare l’opposto, perché se i due paesi si compattano, tutto l’asse euro-asiatico molto difficilmente potrà essere influenzato e gestito dall’Occidente, Giappone compreso. Ultimo asset: la Cina è avanti su molte tecnologie digitali, per esempio l’intelligenza artificiale.
Il 2021 ha visto scoppiare il caso Evergrande: quanto può incidere sulla crescita cinese? E si corre il rischio di una bolla immobiliare che può poi propagarsi ad altri settori, compreso quello bancario?
La Cina non può permettersi una bolla come quella dei mutui subprime negli Usa nel 2007. Nell’immobiliare ci sono gli investimenti della classe media cinese, che avendo mercati finanziari poco liquidi ha investito molto nel mattone. Un’eventuale, a mio avviso impossibile, bolla immobiliare scatenerebbe un disastro sociale che minerebbe alla base il futuro stesso del Pcc e sarebbe uno sfacelo anche per il mondo intero. La Cina ha risorse monetarie per poter gestire in modo controllato questa crisi, anche con un intervento monstre. Ma così si giocherebbe il jolly.
Come sarà il 2022 per l’economia cinese?
Sarà un anno di crescita, che non sarà inferiore al 4-5%, ma più attenta alla qualità che alla quantità, cercando di gestire in modo controllato le emergenze, per esempio sostenendo talune grandi imprese a rischio default più di quanto sarebbe necessario, perché non possono permettersi livelli alti di disoccupazione, specie fra le classi più povere. Insomma, tra un anno la Cina la valuteremo non tanto sul quanto, bensì sul come crescerà: se il +4 o +5% sarà ottenuto con troppi compromessi, non sarà un bel segnale per una Cina che vuole incamminarsi verso una dimensione 2.0. Ma resta un punto fermo: difficilmente il mondo potrà prescindere dalla Cina.
(Marco Biscella)
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