Torna lo spettro della guerra civile in Somalia, un paese che dopo il colpo di Stato del 1991 non si è mai più rimesso in piedi, diviso come è da una realtà fatta di gruppi etnici in difficili rapporti fra loro e per la presenza destabilizzante di al-Shabaab, organizzazione jihadista affiliata ad al Qaeda molto forte nel paese. Le elezioni parlamentari, iniziate lo scorso 26 dicembre e che proprio per la realtà etnica del paese hanno una durata di circa un mese, sono state interrotte nei giorni scorsi dopo che il presidente della Somalia, Mohamed Abdullah Mohamed, ha sospeso il primo ministro Hussein Robie, accusandolo di corruzione.
Tra i due da tempo è in corso una faida e secondo gli osservatori internazionali si tratta di un tentativo del presidente uscente di rimanere al potere, evitando le elezioni, tanto che è stato accusato di colpo di Stato indiretto. Per le strade di Mogadiscio già circolano reparti armati che sostengono il primo ministro, mentre gli Stati Uniti parlano di “atto sconsiderato” e minacciano un intervento se le elezioni non riprenderanno immediatamente. Ne abbiamo parlato con il generale Marco Bertolini, già comandante del Comando operativo di vertice interforze (Coi) e della Brigata Folgore, con un’esperienza in Somalia tra il 1992 e il 1993 in qualità di comandante dell’allora 9º Battaglione d’assalto paracadutisti “Col Moschin”, e quindi attento conoscitore del paese: “La situazione somala è caratterizzata da troppo tempo da instabilità e caos, che in parte avremmo potuto prevenire se, trent’anni fa, avessimo insistito come comunità internazionale con la missione Unosom,
Ibis per noi italiani. Così non è stato, e il risultato è che abbiamo abbandonato la Somalia a se stessa, non solo privandola di un esercito e di forze di polizia credibili, ma anche rendendola facile preda del terrorismo e di colpi di mano come quello a cui stiamo assistendo”.
Il primo ministro somalo è stato sospeso dai suoi incarichi dal presidente della Repubblica, cosa che sta creando una forte tensione nel paese. Secondo lei, chi c’è dietro a questi due uomini? Chi li sostiene? Gli jihadisti oppure paesi stranieri come la Cina?
Escluderei una commistione con i jihadisti, che rappresentano un nemico comune per tutti. Quando parliamo di Somalia dobbiamo ricordarci che esistono diverse Somalie, visto che il governo centrale controlla Mogadiscio e poco altro. Ma chi fa parte del governo, a qualunque fazione appartenga, è sicuramente nemico dei jihadisti.
E la Cina?
Sappiamo che la Cina si muove in tutta l’area e in tutta l’Africa, è presente a Gibuti con una grande base e ha nei suoi progetti di aumentare la sua presenza. La Somalia è stata abbandonata dagli occidentali, in particolare dall’Italia, che si può dire l’abbia tradita abbandonandola al suo destino. Avremmo potuto e dovuto fare di più. Le autorità somale, quando eravamo lì, ci dicevano sempre che la Somalia era “home country in Africa per gli italiani”, un paese di casa per noi. Sicuramente questi personaggi, come il primo ministro e il presidente della Repubblica, vanno in cerca di sponsor. Che si tratti della Cina è difficile dirlo, è una situazione caotica e sbilanciata nella quale chi ha ambizioni si fa avanti. Anche la Turchia è presente in maniera massiccia, ha una grande ambasciata nei pressi di Mogadiscio, mentre tutte le altre, comprese la nostra, sono rappresentate da un paio di moduli abitativi. Non posso escludere che quello che succede a Mogadiscio sia sotto il controllo di questi paesi molto ambiziosi, anzi è molto probabile.
Ci si dimentica, poi, che la Somalia è un paese diviso al suo interno in forti realtà etniche.
È così. Vive lo stesso problema dell’Afghanistan, dove la divisione e le problematiche interne sono su base etnica. In Somalia ci sono realtà della cui visione politica noi facciamo fatica a capire la logica, anche se potremmo capirla, se ci impegnassimo.
Quando voi eravate in Somalia avevate rapporti con queste realtà?
Certamente, noi eravamo in una parte di Mogadiscio, mentre gli americani erano in un’altra. A un certo punto gli americani hanno cambiato idea, non sappiamo per quale motivo, e la situazione si è trasformata, arrivando all’abbandono.
C’erano scontri violenti?
È stato un periodo difficile, ma non erano scontri come quelli che abbiamo visto in Afghanistan, non c’era una opposizione organizzata: vigeva una situazione di anarchia dopo il colpo di Stato del 1991. Erano gruppi di criminali che facevano il bello e il brutto tempo, poi due signori locali hanno cercato di prendere il potere.
Ma perché la missione è stata abbandonata?
Gli americani a un certo punto persero interesse per la Somalia e se ne andarono, e di conseguenza anche noi. Fu un peccato, perché la situazione era decisamente migliorata, soprattutto nella zona controllata da noi. Onestamente non abbiamo mai capito perché gli americani decisero di andarsene.
Adesso il segretario di Stato americano sta già facendo la voce grossa, minacciando un intervento se le elezioni non saranno riprese. Secondo lei, è possibile?
In Somalia c’è già una presenza americana, anche se indiretta, condotta con l’uso dei droni. Però gli Stati Uniti sembrano disorientati dopo l’Afghanistan e credo che la loro priorità adesso sia l’Ucraina.
(Paolo Vites)
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