Il 2022 porta con sé novità fiscali importanti per molti italiani, che cominceranno a essere percepibili nelle prossime buste paga e soprattutto a marzo, quando entrerà in vigore anche per i lavoratori dipendenti l’Assegno unico per i figli. La Legge di bilancio 2022 ha cominciato a dare attuazione alla legge delega sulla riforma fiscale con un intervento sull’Irpef che è stato anche oggetto delle proteste sindacali sfociate nello sciopero generale di Cgil e Uil di metà dicembre.
“Con le risorse aggiuntive previste dalla manovra – spiega Massimo D’Antoni, professore di Scienza delle finanze all’Università di Siena -, le risorse per la riforma fiscale ammontano a 8 miliardi, di cui circa 7 utilizzati per la rimodulazione di aliquote e scaglioni Irpef e il restante miliardo a finanziare l’eliminazione dell’Irap per le persone fisiche. La discussione si è quasi tutta concentrata sugli effetti del primo intervento, che ha modificato la curva della progressività”.
Che cosa pensa della discussione che ne è sorta?
Ha suscitato giustamente molte reazioni l’affermazione del presidente Draghi, che in conferenza stampa ha affermato che i maggiori beneficiari della riforma sarebbero i lavoratori e pensionati a basso reddito, con 15 mila euro di reddito. Questa affermazione è in effetti sorprendente e può essere facilmente smentita guardando i numeri, anche quelli pubblicati dall’Ufficio parlamentare di Bilancio: gli effetti della riforma dell’Irpef sono concentrati principalmente sui redditi nella fascia compresa tra 28 e 50 mila euro.
Quindi la riforma non è improntata a criteri di equità?
Qui bisogna intendersi, perché non c’è una definizione univoca di equità e infatti le opinioni divergono. In molti hanno sottolineato che concentrare la maggior parte delle risorse sui redditi al di sopra dei 28 mila euro non risponda alla situazione di grande difficoltà che si è creata per molte famiglie con la pandemia ed è difficile obiettare a questa critica. D’altra parte, la delega fiscale indicava quale obiettivo principale quello di riordinare la curva delle aliquote, che dopo gli interventi un po’ maldestri del “bonus Renzi” e delle modifiche successive alle detrazioni aveva bisogno di una risistemazione. Si tratta di aspetti che hanno un certo grado di tecnicismo.
Provi a spiegare.
Come i lettori ricorderanno, il “bonus Renzi” aveva concentrato i propri effetti nella fascia dei lavoratori dipendenti tra gli 8 e i 26 mila euro, ma lo aveva fatto in modo un po’ brutale, senza prestare attenzione agli effetti sulla struttura dell’imposta, che è un meccanismo delicato. Ad esempio, aveva escluso del tutto dai benefici i redditi al di sotto degli 8 mila euro e aveva disegnato l’intervento in modo che tra i 26 e i 28 mila euro ci fosse una riduzione molto drastica dei vantaggi fiscali. Ciò aveva determinato una struttura molto anomala delle aliquote effettive.
Con quali effetti?
In pratica, chi intorno ai 25-26 mila euro si trovava ad aumentare anche di poco il proprio reddito soffriva un aumento assai consistente del carico fiscale. Come dire che il peso dell’imposta cresceva rapidamente intorno a quella fascia di reddito per tornare ad aumentare in modo più graduale a livelli più alti. Per questo si è formato un ampio consenso sulla necessità di rendere la curva dell’imposta meno brusca, ripristinando una progressione più graduale dell’aliquota. Qualcuno ha parlato di un intervento di manutenzione, che se per un verso era necessario per altro verso non era forse così urgente in questo momento. Questo del resto chiedeva la delega fiscale.
Quindi non si poteva fare diversamente?
La concentrazione dei benefici nella fascia oltre i 28 mila, immediatamente superiore a quella beneficiata dagli interventi negli anni precedenti, era in parte inevitabile dato l’obiettivo di «ridurre gradualmente le variazioni eccessive delle aliquote marginali effettive». Possiamo dire che si è preservata la progressività dell’imposta, quindi ciò che si è fatto non è in sé sbagliato. Ma un intervento va giudicato anche per quello che si sarebbe potuto e dovuto fare e in questo caso non si è fatto nulla per rendere l’imposta più redistributiva. In particolare non si è fatto nulla a favore dei working poors, dei lavoratori poveri con reddito al di sotto del minimo tassabile. Stiamo parlando di qualcosa come 6 milioni di persone che, stando al di sotto del limite minimo di reddito tassabile, non hanno ricevuto alcun beneficio dall’intervento sull’Irpef. L’obiettivo redistributivo non è evidentemente una priorità per questo esecutivo.
Le misure della manovra rappresentano il primo passo della più ampia riforma fiscale. Cosa pensa del ddl delega approvato lo scorso anno?
Da questo punto di vista ci sarebbero altri interventi importanti da fare. Per ridare razionalità all’imposta sul reddito, che ha perso coerenza dopo decenni di interventi in assenza di una visione complessiva, occorrerebbe eliminare tutti i trattamenti sostitutivi e speciali introdotti negli ultimi anni. L’Irpef, cioè l’imposta cui è affidata la progressività del sistema tributario sancita nella Costituzione, è ormai un’imposta che grava solo su lavoro dipendente e pensioni, perché ormai una parte consistente dei lavoratori autonomi e delle piccole imprese sono assoggettati a regimi fiscali sostitutivi, molto più favorevoli. La legge delega indica una direzione chiara, quella della tassazione duale, ma una soluzione del genere dovrebbe essere applicata coerentemente, assoggettando tutti i redditi da lavoro all’imposta progressiva e tutti i redditi da capitale a una stessa imposta proporzionale, senza trattamenti privilegiati. Ma dubito che si andrà in questa direzione, anche perché la maggioranza è troppo divisa e in particolare la Lega sta spingendo per un’interpretazione minimalista della riforma. Alla fine, anche l’uso del termine «riforma» rischia di essere eccessivo per indicare interventi che avranno un contenuto poco più che cosmetico.
Molto si è dibattuto della riforma del catasto, è stato anche paventato il rischio di una nuova patrimoniale. Qual è il suo giudizio in merito?
Nel nostro Paese c’è un atteggiamento un po’ isterico rispetto alla patrimoniale. Noi abbiamo già la patrimoniale, anzi ne abbiamo più di una: l’Imu è una patrimoniale sugli immobili diversi dall’abitazione principale mentre sul patrimonio finanziario c’è l’imposta di bollo, che magari non è elevata ma è una patrimoniale a tutti gli effetti. Inoltre, il sempre più ampio ricorso all’Isee implica che il valore del patrimonio familiare, che contribuisce in misura significativa a determinare l’indicatore, abbia un peso sempre maggiore nelle condizioni di accesso a molti servizi e benefici. Un’eventuale nuova imposta patrimoniale è una scelta politica, che nel caso dovrà trovare un consenso in Parlamento che al momento mi sembra mancare. L’isteria sulla patrimoniale arriva invece a giustificare un veto anche su una cosa da tempo necessaria come la riforma del catasto, che è una condizione minima per evitare situazioni come quelle di immobili di pregio nei centri storici che pagano meno di abitazioni di periferia, perché i parametri del catasto sono ormai obsoleti. La riforma del catasto di per sé non implica nessuna patrimoniale, ma solo una redistribuzione del carico fiscale nel senso di una maggiore equità tra contribuenti. A meno che l’idea non sia che proprio l’iniquità dell’attuale struttura delle imposte immobiliari rappresenta una forma di difesa da iniziative orientate ad aumentarne il peso.
Cosa pensa invece dell’Assegno unico per i figli? Anche qui c’è il timore che alcune famiglie restino penalizzate rispetto all’anno scorso.
Beh, la mia è una di quelle, visto che all’assegno si accompagna l’eliminazione delle detrazioni per familiari a carico per chi ha figli maggiorenni a carico. C’è poi la scelta di escludere da ogni beneficio i percettori di redditi medi e alti, una scelta che viene giustificata sul piano redistributivo ma che rischia di fare del sostegno alla famiglia una misura di carattere assistenziale invece di un riconoscimento a tutte le famiglie con figli. È vero che una famiglia con reddito medio o alto in senso stretto non ha “bisogno” della detrazione, ma è anche vero che nel confronto a parità di reddito tra una famiglia con figli e un contribuente senza figli un fisco attento alla famiglia dovrebbe riconoscere una vantaggio fiscale alla prima rispetto al secondo. Ripeto, un po’ mi preoccupa questo passaggio da una logica di equità e di riconoscimento del valore sociale della famiglia a una logica di tipo assistenziale per cui la famiglia è oggetto di attenzione solo quando in difficoltà economica.
(Lorenzo Torrisi)
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