Il disegno legge sulla manovra di bilancio per il 2022 ha suscitato rosee attese in chi, come il sottoscritto, sperava in una riduzione significativa della pressione fiscale, soprattutto sui redditi da lavoro. Che fossero “tartassati” emerge chiaramente da documenti parlamentari, oltre che da un semplice sguardo alla busta paga: l’indagine conoscitiva condotta dalla commissione Finanze della Camera dei deputati in materia di riforma sul reddito delle persone fisiche del 30 giugno scorso ha mostrato un’aliquota implicita di tassazione sul lavoro di quasi 5 punti percentuali superiore alla media Ue. Assai positiva, in particolare, è stata l’attenzione posta dal Legislatore – per la prima volta senza girarci attorno – al ceto medio, cioè la fascia di reddito compresa tra 28.000 e 55.000 euro, che già a livello di scaglione progressivo scontava un’aliquota marginale del 38%.
La Legge di bilancio promulgata a fine dicembre (L. 30/12/2021, n. 234) ha effettivamente ridisegnato le aliquote per scaglioni di reddito: 23% fino a 15.000 euro (come prima), 25% oltre 15.000 e fino a 28.000 euro (prima era il 27%), 35% oltre 28.000 e fino a 50.000 euro (prima era il 38% oltre 28.000 e fino a 55.000 euro). Sin qui, l’obiettivo sembra raggiunto, vista la riduzione di due punti percentuali sul secondo scaglione e di tre punti sul terzo, leggermente decurtato. Tuttavia, il problema nasce proprio oltre i 50.000 euro, poiché la nuova legge fissa un’aliquota unica del 43%, mentre la precedente imposizione prevedeva il 41% oltre 55.000 e fino a 75.000 euro e il 43% oltre 75.000 euro, aliquote comunque elevate ma più modulari. Oltre a ciò, la detrazione spettante sui redditi di lavoro dipendente e assimilati, pur incrementata fino a 50.000 euro, è stata completamente eliminata dopo tale importo, mentre prima si azzerava oltre 55.000 euro.
La soglia di 50.000 euro, dunque, raggiunta la quale si opera un taglio netto e radicale, è stata interpretata come limite massimo di ricchezza, che non giustificherebbe più sconti. Sul punto mi preme fare alcune considerazioni.
Innanzitutto, per quanto banale, bisogna ricordare che gli scaglioni reddituali rappresentano importi lordi (elemento, in verità, quasi mai precisato dalla stampa). Per avere un’idea, basti pensare che a 50.000 euro lordi corrispondevano, con la vecchia Irpef circa 15.000 euro di imposta, a cui, naturalmente, va aggiunta la fiscalità locale: ad esempio, per chi vive a Milano, tra addizionale regionale e comunale, il prelievo aggiuntivo ammonta a circa 1.000 euro; al cittadino-contribuente, nella fattispecie milanese (di origine o di adozione), vengono in tasca 34.000 euro netti-Irpef; bisogna poi tener conto degli oneri contributivi (a carico di un lavoratore dipendente, circa 4.600 euro) che significa poco più di 29.000 euro complessivi all’anno, ossia circa 2.500 euro al mese: si tratta certamente di un buon stipendio, ma non me la sento di definire “ricco” chi lo percepisce! È sufficiente pensare a una famiglia mono-reddito per intuire che, pur in presenza di agevolazioni fiscali per carichi di famiglia, non rimane molto da risparmiare, senza contare che, ormai, il popolo dei “single” si allarga sempre di più.
In secondo luogo, come già notato dalla citata indagine conoscitiva, il fisco italiano è stato oggetto negli anni di numerosi interventi disorganici, che ne hanno esagerato la complessità e compromesso la certezza, con il conseguente dominio di interpretazioni troppo prudenziali – e versamenti di imposta anche non dovuti pur di stare tranquilli – e di carenza di investimenti, soprattutto stranieri, con penalizzazione della crescita. Tutto ciò crea notevoli disparità fiscali tra categorie di contribuenti; ne sono un esempio l’esistenza di regimi forfettari, quali, ad esempio, la flat tax sulle partite Iva (15% fino a 65.000 euro, a certe condizioni), misura tanto sbandierata dal centrodestra. Così come l’esistenza di oltre 500 misure di agevolazione fiscale (tax expenditures), spesso politicamente sfruttate per ingraziarsi fasce di contribuenti-elettori, la cui razionalizzazione è premessa a qualsiasi revisione del sistema tributario, cosa, del resto, riconosciuta dai governi succedutisi negli ultimi 20 anni.
Vi è poi un terzo fattore, che chiamerei “pregiudizio del furto” (una specie di idolo baconiano). Si sostanzia nel considerare comunque colpevole chi si è arricchito, sia per forza di iniziativa e fatica propria, sia per forza di circostanze favorevoli; diversamente, non si spiegherebbe un impatto del 43% (non lontano dalla metà) su un reddito superiore a 50 mila euro!
In attesa che la riforma fiscale si completi con l’attuazione della legge delega approvata nel 2021 -ma questa volta confesso una buona dose di scetticismo – non posso che associarmi alle parole, scritte poco tempo fa dal coriaceo prof. Alberto Brambilla, che mette conto riportare per intero: “Per quanto riguarda la pseudo-riforma fiscale proposta dai partiti, la protesta, emersa nel corso della manifestazione sindacale a Roma, è incentrata sul fatto che i redditi sotto i 15.000 euro annui lordi non abbiano ottenuto benefici fiscali. Landini ha ‘urlato’ tutto il suo dissenso aizzando la rabbia popolare verso i ‘ricchi’ a difesa dei ‘poveri’. Eppure, non dovrebbe sfuggire agli uffici studi dei sindacati che in questa fascia di contribuenti, cui si applica l’aliquota del 23%, ci sono circa 18 milioni di dichiaranti che – grazie a esenzioni, detrazioni e bonus (di cui questa cittadini sono i maggiori beneficiari) – quelli che pagano almeno un euro di IRPEF sono solo 4.782.000, mentre l’IRPEF media versata va dai 31 euro ai 454 (37 euro al mese). In totale, questi dichiaranti – cui corrispondono circa 26 milioni di cittadini versano solo il 2,31% di tutta l’IRPEF […]. Si potrebbe iniziare una discussione seria su quale fisco vogliamo, al netto di slogan e luoghi comuni: per esempio discutere se la curva delle aliquote possa essere ridisegnata sul modello tedesco che elimina i gradini tra un’aliquota e l’altra […], migliorare e semplificare il welfare aziendale, riequilibrare il peso delle imposte tra dirette e indirette, e invece no! I politici continuano ad affermare che ‘dobbiamo dare agli italiani quello che si meritano’ convincendoli così che meritano di avere più soldi (la paghetta di Stato del reddito di cittadinanza), pagare meno imposte e avere servizi gratis. E poiché ciò non può essere realizzato, aumentano la rabbia, gli estremismi e lo scontro sociale evidenziati dalla infedeltà di voto. A tutti i politici che propongono ‘a debito’ meno tasse e più servizi gratis, gli elettori dovrebbero chiedere: chi paga? Si accorgerebbero che stanno lasciando ai figli e nipoti un debito insostenibile e non etico“.
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