Come in passato, più che in passato, l’elezione del presidente della Repubblica si carica di molteplici significati.
Stavolta l’indicazione di un nome ha la necessità di essere accompagnata dalla contestuale costruzione di un contesto politico, che manca, e dall’individuazione di uno sbocco alla lunga transizione politica, che dura da qualche lustro.
Senza una premessa di questo tipo, lo svolgimento dell’elezione non solo è un percorso a ostacoli, ma rischia di essere un percorso senza via d’uscita.
Se vi fosse un contesto, ci sarebbe anche un soggetto o una parte politica chiamata ad assumere l’iniziativa; se vi fosse una prospettiva, vi sarebbero una serie di attori interessati alla costruzione di una trama di dialogo non episodico o tattico.
Ma questi sono passaggi dolorosi per forze politiche le quali inseguono ciascuna un lembo di orizzonte, eludendo l’esigenza di porre basi comuni all’equilibrio democratico del paese, ed ignorando una serie significativa di dati della realtà.
Primo tra tutti, quello per il quale non esistono più le condizioni per imporre uno schema maggioritario fondato sull’esistenza nella realtà di due schieramenti organici al loro interno e alternativi nella prospettiva di governo. Mentre la successione dei soli governi della legislatura in corso (gialloverde prima; giallorosso poi; multicolore adesso) indica in termini nitidi che l’articolazione politica, sociale e culturale è tale che una sua composizione è possibile solo per approssimazioni e alleanze, e che una soluzione proporzionale, adeguatamente corretta per evitare i rivoli della frammentazione, può esserne un efficace strumento di orientamento.
Sino ad ora istintivamente è prevalsa l’idea di immobilizzare lo stato delle cose, in attesa del prossimo passaggio elettorale, come se le ultime volte le elezioni non avessero amplificato le incertezze anziché ridurle.
E la proposta di riconfermare Mattarella in fondo ha tradito questo retropensiero. Il cui indizio più evidente (quasi puerile) sta nella chiosa che l’ha accompagnata: elezione a termine con dimissioni programmate dopo le prossime elezioni politiche. Cosa avrebbe potuto opporre Mattarella dinanzi ad un’ipotesi di questo tipo, se non un secco irritato rifiuto?
Viene invece da chiedersi quale sarebbe stato l’atteggiamento dell’attuale presidente se le forze di governo, di quel governo costruito da lui, gli avessero rappresentato la consapevolezza che l’attuale maggioranza è frutto di una condizione eccezionale e di difficoltà delle forze politiche, che il sostegno a Draghi nasce dall’esigenza di affrontare una condizione straordinaria, e che l’uscita da questa fase di transizione esige il compimento di un percorso di rigenerazione delle istituzioni e rilegittimazione delle forze politiche che ha bisogno di tempo per compiersi, tempo che potrebbe anche non coincidere con il prossimo passaggio elettorale.
In questa prospettiva, il mantenimento dell’attuale equilibrio istituzionale non sarebbe figlio di un’istanza di immobilismo dell’incertezza, ma sarebbe la conseguenza della necessità di garantire una continuità di riferimenti per giungere al traguardo indicato attraverso tappe definite e chiare.
Sarebbe perciò curioso capire quale sarebbe l’atteggiamento di Mattarella dinanzi ad una posizione di questo tipo: manterrebbe il suo rifiuto o sarebbe chiamato a riflettere sugli sviluppi possibili di una situazione che lui ha generato e che lui può garantire più e meglio di altri?
Ma ad ogni modo, quale che volesse essere il nome del prossimo presidente della Repubblica, un passaggio preventivo o contestuale di costruzione di un equilibrio possibile è un passaggio non aggirabile, per una legge naturale della politica, che in questo caso può essere così sintetizzata: o il prossimo presidente emerge da una prospettiva di equilibrio politico, o sarà il prossimo presidente a generare un nuovo equilibrio politico.
Con una differenza evidente: in un caso si tratterebbe di un processo consapevole e governato, per arrivare oltre la transizione; nell’altro caso si tratterebbe di una condizione determinata casualmente in ragione di equilibri e tattiche del momento e comunque, nel migliore dei casi, senza una chiara e definita prospettiva.
Se ci fosse una vera posizione popolare essa oggi agirebbe per costruire le condizioni di un passaggio consapevole. Ancora una volta, invece, si vede quanto manchi – e quanto sarebbe utile al paese – un approccio per concretezza e competenza.
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