Turni di lavoro massacranti, minacce e ricatti sessuali oltre allo sfruttamento. È accaduto di tutti alle Fonti di Posina, azienda che opera nel settore delle acque minerali, secondo le accuse formulate dalla Procura di Vicenza. Lo scandalo è scoppiato questa mattina, quando i finanziari del comando provinciale, su delega della Procura, hanno notificato un’ordinanza di tre misure cautelari interdittive a tre dirigenti dell’azienda che ha sede a Posina (Vicenza). Le indagini, che sono state condotte dalle Fiamme Gialle della Compagnia di Schio, sono partite in seguito ad un esposto di alcuni dipendenti, tutti moldavi, inquadrati formalmente all’interno di una cooperativa e di una srls con sedi in Lombardia, ma di fatto impiegati nella società vicentina che si occupa di imbottigliamento di acqua minerale e bibite analcoliche.
Stando a quanto riportato dal Gazzettino, attualmente sono sette le persone fisiche indagate, a vario titolo, per i reati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro aggravato, violenza sessuale, favoreggiamento dell’ingresso illegale nel territorio dello Stato, soggiorno illegale nel territorio dello Stato, uso di manodopera clandestina, possesso e fabbricazione di documenti d’identificazione falsi e falsità materiale commessa da privato. Invece Fonti di Posina è stata segnalata all’autorità giudiziaria per responsabilità amministrativa dell’Ente dipendente dai reati, presupposto dell’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, favoreggiamento dell’ingresso illegale in Italia e uso di manodopera clandestina.
LE INDAGINI: TRA LAVORATORI ANCHE UN MINORE
Dalle indagini è emerso che i dipendenti moldavi avevano turni di lavoro massacranti, anche fino a 15 ore al giorno, senza interruzioni. Non avevano né pause pranzo né riposi festivi, gli stipendi inoltre venivano corrisposti in “nero”. Un soggetto moldavo, che aveva la funzione di “caporale“, arruolava i connazionali in patria predisponendo falsi documenti di identità rumeni per consentire l’ingresso illegale in Italia senza permesso di soggiorno ma come normali cittadini Ue, pur essendo clandestini. L’assunzione avveniva in Moldavia tramite il caporale che procurava, dietro compenso, documento di identità comunitario, spesso contraffatto. I lavoratori venivano adibiti a carrellisti, a prescindere dal possesso del patentino per muletto, circostanza per la quale era alto il rischio di incidente sul lavoro in fabbrica. In due circostanze, riporta il Gazzettino, il caporale avrebbe imposto o tentato di imporre prestazioni sessuali ai neo-assunti, minacciandoli di licenziamento. Le indagini hanno accertato anche l’impiego di un minore, nato nel 2003, che figurava come maggiorenne tramite l’inserimento di dati falsi per l’attribuzione del codice fiscale all’Agenzia delle Entrate. Il quotidiano ha precisato che le indagini avrebbero chiarito che il presidente del Cda, il direttore dello stabilimento e il responsabile del magazzino e della distribuzione interna erano consapevoli delle condizioni di lavoro e dello sfruttamento messo in atto dal caporale.
FONTI DI POSINA SI DIFENDE “TOTALMENTE ESTRANEI”
Nel corso dell’attività di perquisizione è stata captata una mail in cui i dirigenti aziendali definivano le ore di lavoro di alcuni operai «al limite della definizione di schiavitù fornita dall’Onu». In virtù di tutti gli elementi raccolti, il Gip del Tribunale di Vicenza, su richiesta della locale Procura, ha emesso un’ordinanza applicativa di misure cautelari (eseguita dalla Guardia di Finanza di Vicenza) nei confronti di tre dirigenti, con cui ha disposto l’interdizione per 12 mesi all’esercizio di qualsiasi attività amministrativa, direttiva e di lavoro autonomo o subordinato. L’azienda Fonti di Posina si è difesa con una nota diffusa in serata con cui si dichiara «completamente estranea alle accuse di sfruttamento di alcuni lavoratori dipendenti di una cooperativa che operava all’interno del suo stabilimento». Inoltre, assicura di aver sempre operato nel pieno rispetto delle regole e della tutela dei diritti dei lavoratori. Quindi, l’azienda prende le distanze da tutto ciò precisando di «non essere mai stata a conoscenza delle condizioni a cui gli impiegati della cooperativa sarebbero stati sottoposti, né tanto meno delle condotte poste in essere dal presunto caporale dipendente della cooperativa stessa». L’azienda ha, quindi, corrisposto quanto dovuto alla cooperativa in base al lavoro affidato e svolto, «senza inserirsi minimamente nella selezione, nell’organizzazione e nella gestione dei lavoratori». Chiarisce infine che sono stati interdetti il presidente del Cda e due dipendenti, non dirigenti, i quali dopo aver preso visione degli atti valuteranno «l’opportunità di presentare impugnazione avverso il provvedimento».