L’Unione Europea deve tornare alla realtà, e in fretta, perché non può, nella situazione critica in cui si trova, condurre un conflitto asimmetrico su due fronti, a Oriente – la Cina – e ad Occidente – gli USA di Trump. Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale nell’Università Cattolica di Milano, rifugge dalla tentazione di avventurarsi in previsioni sugli scenari istituzionali dell’Unione e sulla sua “tenuta” della sua architettura. Dovrebbe essere il quadro clinico del malato ad indurre un serio ripensamento, ma se stiamo alle recentissime dichiarazioni di Lagarde, Dombrovskis, e von der Leyen, non c’è da farsi illusioni.
Mangia parla di “paurosi processi di ridefinizione in corso”, e lo dimostra, come se non bastasse la guerra in Ucraina, la scarsa consapevolezza con cui sono state accolte le dichiarazioni di Trump su Canada, Groenlandia e Panama.
Cominciamo da due notizie odierne. “Pronti a rispondere ai dazi Usa”, ha dichiarato il commissario europeo all’Economia Valdis Dombrovskis. Non è una dichiarazione rassicurante.
Nella fase attuale l’Europa è presa fra due conflitti. Il conflitto ucraino dura da tre anni e ha portato a una rimodulazione delle forniture energetiche al Continente. Di conseguenza tutta l’Ue si trova in una posizione di debolezza mai sperimentata prima. Speriamo che quelle di Dombrovskis siano solo parole di circostanza. Perché se non lo si è capito, petrolio e GNL adesso li prendiamo dagli USA e, stando a Trump, se non ne prenderemo di più saranno dazi e ancora dazi sulle merci europee. È una guerra commerciale che non ci possiamo permettere.
Vengo alla seconda notizia. L’olandese Telegraaf ha rivelato che la UE “pagò lobby green per appoggiare le riforme di Timmermans”.
Inquietante. Che Bruxelles sia il regno del lobbying lo sappiamo tutti e nessuno si scandalizza. Quando però il lobbying viene fatto da chi dovrebbe decidere sugli interessi da governare, diventa qualcos’altro e si chiama propaganda. E qui andiamo al cuore del problema. La rivoluzione green è iniziata nel dicembre 2019 e da allora abbiamo avuto il Covid e il conflitto in Ucraina, con quel che ne è disceso in termini di approvvigionamenti energetici. Abbiamo visto che la riconversione industriale dell’automotive, su cui si era puntato tutto cinque anni fa, è sostanzialmente fallita, perché l’elettrico non ha sfondato né in Europa né negli USA. E dalla Cina ormai arrivano auto elettriche che costano una frazione di quelle europee. La propaganda green ci sarà anche stata, ma alla fine la realtà sta presentando il conto.
Insomma è una rivoluzione che non possiamo permetterci.
No, non possiamo, perché l’Europa non ha né le materie prime, né risorse energetiche autonome per continuare in una politica che sta portando alla veloce de-industrializzazione del Continente. E non ha più nemmeno una superiorità tecnologica in questo né in altri settori. Voler continuare su questa strada, entrando in un conflitto commerciale con gli Usa, appena usciti dagli accordi di Parigi sul clima, mi sembra solo foriero di disastri.
Di disastri per tutti, si intende.
Certo. È schizofrenico perseguire politiche di depressione industriale da una parte e dall’altra parlare di difesa europea e di obiettivi di spesa militare del 5% all’anno. Come la finanzi questa spesa? E a discapito di quali settori?
In questo senso lasciano spiazzati le parole di von der Leyen al WEF. “L’accordo di Parigi continua ad essere la migliore speranza per tutta l’umanità, quindi l’Europa manterrà la rotta”. La si può ancora definire una scelta strategica di politica industriale?
Ho l’impressione che la strategia green degli ultimi cinque anni non riguardi solo la politica industriale. Certo, maggiori costi dell’energia riguardano tutti i settori produttivi, non solo l’automotive che ha problemi suoi. Ma perseguire politiche green ha voluto dire anche un rimodellamento delle politiche agricole dell’Unione, con quel che ne è derivato ed è destinato a derivarne in termini di approvvigionamento alimentare e di maggiori costi. Il Green è stato sussidiato da tutti i settori in termini di maggiori costi per prodotto scaricati sul consumatore e in termini di fiscalità generale. E si è visto non essere sostenibile.
Cosa significa continuare su questa strada?
Vuol dire andare contro la realtà. Farlo, per di più in splendido isolamento, nel momento in cui i grandi fondi internazionali sono già usciti o stanno uscendo dal settore, sembra una scelta poco comprensibile. Probabilmente ci si arriverà quando la misura sarà colma, ma con i tempi, i modi e le contorsioni linguistiche tipiche di Bruxelles.
Ma se andiamo verso difficoltà crescenti, come se quelle attuali non bastassero, cosa ci riserverà o il governo del perenne “stato di eccezione” europeo? L’inasprimento verso gli Stati inadempienti, un nuovo arrocco, un disfacimento istituzionale?
La Commissione von der Leyen 2 è stata un arrocco in attesa delle presidenziali USA. Oggi si sta ripetendo, in tempi accelerati, la situazione di spaccatura politica tra UE e USA che abbiamo già sperimentato tra il 2016 e il 2020. Ma adesso la situazione è molto diversa da allora: otto anni fa non c’era ancora stata la crisi pandemica, non c’era la crisi ucraina, i rifornimenti energetici erano scontati e basso prezzo, l’economia di quella che si chiamava zona core fatturava utili, e non ci si preoccupava degli effetti della rivoluzione green perché non c’era ancora stata. Al massimo ci si preoccupava della stabilità dei prezzi e del contenimento dei bilanci pubblici. Certo le premesse per il presente c’erano tutte, stante il basso livello di investimenti, pubblici e privati, nel Continente. Ma non è questo il punto.
Il punto, forse, è che oggi tutte quelle condizioni sono venute meno.
Esatto. Gli investimenti fatti nel Green non hanno dato un ritorno generalizzato. Hanno dato ritorno nei settori direttamente o indirettamente sussidiati. Ma dubito fortemente che questo possa bastare all’Europa come base per condurre un conflitto asimmetrico su due fronti, a Oriente e ad Occidente. Una scelta va fatta. E prima lo si capisce, meglio è.
Wolfgang Streeck osservò nel 2019 che la Ue, a modo suo, è un impero: “Ha un centro è una periferia, con un ripido gradiente di potere tra il primo e la seconda. Il centro impone e fa rispettare il suo ordine politico ed economico nella periferia mediante la moneta unica, le libertà del mercato comune e l’obbligo generale di aderire ai valori europei”. Quali effetti potrebbe avere il nuovo corso americano, sommato alla guerra in Ucraina e ai suoi esiti, sulla struttura di questo “impero” molto particolare?
Nel 2016 Giulio Tremonti parlava di Mundus furiosus. Se allora questa formula poteva sembrare immaginifica, oggi sembra un buon modo per descrivere il presente. Fra le dichiarazioni della nuova amministrazione americana quelle relative a Canada, Groenlandia e Panama sono state liquidate con una battuta o poco più. Invece io ritengo che debbano essere valutate con attenzione, perché questa è una fase di ridefinizione delle sfere di influenza tra le grandi potenze mondiali. Canada, Groenlandia e Panama testimoniano della tendenza a parlare di America come blocco continentale unitario, contrapposto ad altri blocchi in via di definizione in Asia e nel resto del mondo.
Soprattutto, Canada e Groenlandia sono ricchi di materie prime.
Acquisizioni di territorio di questo genere non hanno senso soltanto in termini di materie prime, oil & gas. Hanno senso nella prospettiva della definizione di nuove e diverse vie di comunicazione e quindi di produzione e circolazione della ricchezza. Questo, in prospettiva, manda in soffitta tutti i vecchi discorsi sulla globalizzazione e su un unico “ordine mondiale basato sulle regole”. Se in USA si fanno questi discorsi sui blocchi continentali da consolidare è perché ci si sta pensando. Non è un fatto da prendere sottogamba.
Anche lei pensa agli “executive orders” firmati da Trump il giorno dell’insediamento?
Sì, perché gli USA di Trump non si sono ritirati solo dagli accordi di Parigi: si sono ritirati subito anche dall’OMS. E mostrano grande diffidenza verso ogni organismo internazionale. I conflitti in Ucraina e in Medio Oriente sono un segno dei paurosi processi di ridefinizione in corso. E le linee di composizione degli equilibri futuri oggi si possono solo intravedere. Lei parlava di “impero europeo”: guardi che questa idea di impero tiene solo se si guarda al fatto economico. Se si guarda agli aspetti geopolitici, si vede che questo “impero” è già in via di frammentazione e tende ad andare in ordine sparso. Ci si dimentica, ad esempio, del Regno Unito, e del ruolo che questo ha giocato e sta ancora giocando nella questione ucraina attraverso i suoi rapporti con Polonia, Baltici e Scandinavi. Il Regno Unito non farà più parte della UE, ma nella NATO ha un ruolo primario da sempre.
E se per l’Italia ci fossero, in questi “processi di ridefinizione”, decisioni audaci da prendere come Stato?
Guardi, quella che chiamiamo Europa in realtà è fatta da Commissione, BCE e governi nazionali. Germania e Francia sono nelle condizioni politiche ed economiche che sappiamo, in stallo e in bilancio provvisorio. Da qui il margine di relativa libertà della Commissione nell’affrontare i problemi del momento.
Quindi?
Se e quando Germania e Francia si saranno stabilizzate, si inizierà a capire qualcosa di più della situazione europea. La Commissione, qualunque sia la maggioranza in Parlamento europeo, non può andare avanti senza il voto dei governi nazionali in Consiglio UE. Il problema è che intanto la situazione fuori d’Europa procede per conto suo e lascia l’UE, o quel che ne resta, a guardare, e a parlare di “speranza per l’umanità”.
(Federico Ferraù)
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