I numeri, intanto: settantasette anni, sessanta di professionismo musicale, quarantadue album in studio, sette live, ottanta singoli. Non si può dire che a Van Morrison non piaccia lavorare. Irlandese di Belfast, nasce a soli quattro anni di distanza dalla morte di James Joyce e poche cose possono azzardare un riassunto della sua produzione come l’idea di “flusso di coscienza”, una tecnica che comunque Van ha sempre pubblicamente riconosciuto come riferimento. “Tradizione e innovazione”: se non sembrasse una pubblicità di tortellini, sarebbe una buona sintesi per approssimazione della sua musica. Da un lato ha raccolto e portato all’eccellenza ogni rivolo e affluente della black music (blues, jazz, soul, R&B, gospel, rock&roll, etc.), dall’altro ha qualificato i generi di matrice bianca (folk, country, bluegrass, skiffle), mescolati con energia ne ha tirato fuori quel suo sound così riconoscibile. Discontinuo nella qualità delle produzioni, che però professano una curiosità selvaggia e bulimica verso il linguaggio approfondito pro tempore, non c’è un album che privi l’ascoltatore di almeno una o due perle; poi tornando e ritornando sugli ascolti se ne scoprono altre. Già, perché si può invitare l’ascoltatore a sperimentare di persona: mettere un brano a caso, noto o sconosciuto, e verificare quanto magicamente calzi a pennello con il mood del momento, quanto sia incredibilmente adatto al racconto, al viaggio, alla memoria, alla spiritualità e alla rabbia. Che è poi quello che la musica fa (o dovrebbe).
Selezionare i dieci album migliori, quindi, è solo un gioco un po’ folle, una sfida a riascoltarne il più possibile, a contestare l’arbitrio dell’estensore e a compilare la propria top list. Ma se si litigasse di più sugli dei del blues e del rock, in fondo, questo mondo sarebbe migliore.
10 – THREE CHORDS AND THE TRUTH, 2019
Pensato come il primo album originale di outtake delle produzioni più recenti, finisce per diventare un’antologia del blues sporco e polveroso covato in decenni di carriera. La voce di Morrison ha più colori della tavolozza di un pittore, è scura ed espressiva come raramente si sentiva negli ultimi tempi. Tre accordi, i soliti, una citazione della definizione del country di Harland Howard, per mescolare, come solo lui è capace di fare, citazioni ed autocitazioni lontane e più recenti. C’è anche una perla come You don’t understand, un blues ostinato puntellato su basso e Hammond con il riferimento piuttosto esplicito alla Ballad of a thin man di Dylan (Highway 61 Revisited). Nell’album The Man recupera anche la chitarra dell’ottantenne Jay Berliner, che aveva già suonato in Astral Weeks e che s’è ritrovato a suonare per Mingus, Ron Carter e Harry Bellafonte. Il sound complessivo dell’album restituisce un’idea di solidità incrollabile e che di storie da raccontare Morrison ne ha ancora a pacchi.
9 – THE SKIFFLE SESSIONS, 2000
Negli anni ’50 in Inghilterra, percorsa dalle violente proteste dei portuali contro il Governo, prese piede una nuova versione dello skiffle (nato a fine ‘800 in America): rendere percussiva la musica in voga, ricorrendo a ogni utensile capace di far rumore: bidoni, piatti, stoviglie, pietre, ferraglie. Van discute con Dr. John della possibilità di fare un album live con pezzi originali e tradizionali per tornare a divertirsi sulla musica dalla quale è nato. A bordo, insieme ai due, sale anche Lonnie Donegan, uno dei padri di quel sound e Chris Barber, trombonista dixieland in formato deluxe; nel 2000 esce un album divertente e suonato in modo divino, nel quale girano pezzi di Dvořák e di Woody Guthrie, di Lead Belly e di Morrison: arrangiamenti per fiati scoppiettanti ed un tripudio di chitarre acustiche e mandolini per attivare la macchina del tempo. Wow!
8 – WHAT’S WRONG WITH THIS PICTURE?, 2003
L’album segna l’insolita collaborazione del brusco irlandese con la Blue Note di NYC, uno dei templi del jazz, in quegli anni alla ricerca di una nuova identità più vicina ai gusti commerciali e a ibridazioni con hip hop e nu-soul. Van, invece, riporta ai discografici le lancette di nuovo indietro, registrando il suo miglior tributo ai giganti del passato, da Lightinin’ Hopkins a Sam Cooke; indugia sul suo ineffabile senso per lo stomp, accenna a idee scat, erompe in fiammate dixie e lascia la zampata d’autore con una delle versioni migliori di tutti i tempi di St. James Infirmary: suona il sax alto a modo suo (affatto virtuoso, ma con un suono e un linguaggio personalissimi) e cuce una intro di quasi due minuti senza voce, l’impasto sonoro è di sua marca eppure evocativo oltre ogni attesa. Qualcuno lo critica per carenza di idee, perdendo però il piacere di musica sartoriale, arrangiata e cantata come non si sentiva da tempo. E’ quello che Morrison voleva, stufo delle solite cronache scialbe dei giornalisti musicali, che attacca di petto approfittando della promozione dell’album.
7 – NO GURU, NO METHOD, NO TEACHER, 1986
E’ il sedicesimo album di Morrison, che affronta la rivoluzione elettronica in musica degli ’80 e le fanfare di sintetizzatori in modo pressoché indenne, anzi, con la cazzimma del bastian contrario, sfida in quegli anni di paillettes e ottimismo edonistico con brani di natura mistica e religiosa, pronto a invocare la trascendenza trasfigurata della morte e contatti spirituali. In the garden è il manifesto perfetto di questo remare controcorrente, che raggiungerà l’apice con Hymns to the silence, mentre On the warm feeling si illumina con un’intro di sax soprano su un tappeto armonico di grande eleganza (che l’anno successivo “curiosamente” Vasco Rossi rifà quasi uguale in Liberi Liberi, ma son coincidenze). The Man codifica ulteriormente la propria idea di forma canzone, chi non lo conosce o lo conosce poco può partire serenamente da questo ascolto.
6 – THE HEALING GAME, 1996
Il titolo dell’album si riferisce al nome con cui a Belfast vengono definiti i canti di strada improvvisati, che per Morrison sono uno degli ultimi presidi di continuità della tradizione orale barda, una glorificazione del dolore attraverso la sinergia creativa della musica. Uscito a poca distanza da una rilettura dei brani di Mose Allison, l’album è un altro manifesto del buon scrivere le canzoni, strutturate in modo perfetto tra pause, arrangiamenti, variazioni ritmiche e costruzioni vocali, per le quali Van continua ad avvalersi del falsetto di Brian Kennedy (molta critica gli contesterà la scelta, anche in Italia), che però è lo specchio perfetto dei suoi ruggiti cavernosi e contribuisce al suono tutto bilanciato, pacificato addirittura, che i 56 minuti di musica garantiscono. Ci sono gli strumenti della tradizione celtica, l’equipaggiamento acustico del blues-rock americano, i testi allusivi di Morrison, che in apertura – citando espressamente un verso di W.B. Yeats – piazza una sua pietra miliare: Rough god goes riding.
5 – POETIC CHAMPION COMPOSE, 1987
A un anno di distanza da No Guru, Van tira fuori un altro gioiello e nella ricezione della critica conferma quanto divisiva possa essere la sua creatività; se per qualcuno l’album è poco più che una raccolta di brani da sala d’attesa in aeroporto, per altri – qui, ad esempio – il bello stile che fa onore all’irlandese eretico è perfettamente rappresentato nell’alternanza tra brani strumentali (l’idea iniziale era di inserire solo quelli) e brani cantati, cover e originali. Spanish steps è una sorta di overture, dove Morrison torna a suonare il suo sax alto del quale non è un virtuoso, ma ha il dono di un timbro originale e di un linguaggio riconoscibile, mentre il punto più alto è la rilettura di Sometimes I feel like a motherless child, uno standard talmente standard che era un’impresa riuscire a stravolgere con un senso completamente nuovo e attuale. Come dire, l’arte della cover.
4 – SAINT DOMINICS PREVIEW, 1972
Tra gli album più strambi, visionari e ibridi di Morrison, che va segnalato almeno per due brani: Listen to the lion e Almost Independence Day. Sono lenzuolate che superano i dieci minuti, cristallizzando lo stile ipnotico, ereditato dallo sciamanesimo del blues di John Lee Hooker (che il nostro venera come una divinità), che diventerà un suo precipuo marchio di fabbrica. Se la prima è un curioso outtake di Tupelo Honey, scartata all’ultimo e messa (giustamente) come punta di diamante dell’album successivo, con la mimesi quasi spaventosa del ruggito del leone a mezzo voce, la seconda è – indiscutibilmente – il brano che i Pink Floyd copieranno pari pari per l’introduzione a Wish you were here, in modo talmente evidente da non poter lasciar dubbio che il gruppo volle espressamente citare Morrison e tributargli un grande riconoscimento nella scrittura delle songs. Per il resto, l’album vola da atmosfere di irish folk a brani bop-swing (Jackie Wilson said), con i caratteristici raddoppi di tempo e terzine veloci, così proprie di quello stile.
3 – IRISH HEARTBEAT, 1988
Quando si incontrarono al festival rock di Edimburgo nel 1986, Paddy Moloney e Van Morrison finirono per parlare di musica tradizionale e della capacità propria del folk irlandese di contenere alcune delle radici più significative del blues e del jazz. I Chieftains furono la risposta “moderata” all’avanguardia dei Pentangle di John Renbourne e agli abboccamenti commerciali dei Clannad, ma il sound celtico rimase tra i ’70 e gli ’80 come punto di riferimento per moltissimi musicisti atlantici ed europei. In breve, i due giganti passarono dalle parole ai fatti, stesero una scaletta di diciotto brani ed entrarono in sala di registrazione. Ne uscì quello che, probabilmente, è il miglior prodotto di questo genere, con Morrison in stato di grazia e con una voce potente, colorata e iper espressiva. Moloney ne fu impressionato e raccontò come quel risultato fu possibile solo per il bisogno intimo di Van di ritrovare le proprie radici musicali e insieme la propria identità. Da segnalare, tra gli splendidi brani, la perla di Carrickfergus, una ballata tradizionale di fine ‘700, interpretata con densità capace di restituire la malinconia dell’abbandono e la miseria dei casini umani con irriproducibile esemplarità.
2 – ASTRAL WEEKS, 1968
Piuttosto scontato, quasi indiscutibile, piazzare il secondo album di Van The Man sul podio, per l’unanime riconoscimento tributatogli da critica e pubblico. Brani bellissimi, dolenti, visionari e moderni, che squadernano al mondo musicale una nuova realtà artistica che non potrà che far parlare di sé. Meglio parlare con le parole, come sempre illuminate, di Lester Bangs: “C’è quasi un elemento di redenzione, una compassione definitiva per la sofferenza degli altri a un ormeggio per la bellezza pura e il grido mistico: fatti che arrivano dritti al cuore”. Riascoltarlo ciclicamente offre nuovi spunti e suggestioni, anche dopo decenni, sono canzoni che, in un certo modo, sembrano preesistere al tempo, qualcosa che già pare di conoscere da sempre. E’ la creazione di un’atmosfera che la nostalgia scolorisce come un dagherrotipo prima ancora di lasciarla all’usura del tempo.
1 – HYMNS TO THE SILENCE, 1991
E’ il 1991 quando esce questo album doppio, registrato in studio tra Belfast e Londra. Con tutto l’arbitrio di aver tirato via dai dieci best album come Moondance e Tupelo Honey, si sceglie per la vetta un disco che è la migliore autobiografia artistica di Morrison, dove sono rintracciabili tutti gli elementi propri del suo stile: folk celtico coi Chieftains, inni tradizionali, brani mistici e religiosi (Carrying a Torch), recitativi di prose poetiche, jazz, boogie e blues. Gli arrangiamenti sono superbi e non c’è un solo brano che sia meno che perfetto, anche considerato l’azzardo di aver scelto di raddoppiare. Ascoltare per credere.