RASTRELLAMENTO GHETTO DI ROMA: UNA RETATA AI DANNI DELLA COMUNITÀ EBRAICA
Il rastrellamento del ghetto di Roma del 16 ottobre 1943 rappresenta senza ombra di dubbio una delle pagine della nostra storia più tristi e drammatiche di sempre. Si trattò di una retata di 1.259 persone, di cui 689 donne, 363 uomini e 207 tra bambini e bambine, quasi tutti appartenenti alla comunità ebraica, effettuato dalle truppe tedesche della Gestapo con la collaborazione dei funzionari del regime fascista tra le ore 5.30 e le 14, principalmente in via del Portico d’Ottavia e nelle strade adiacenti, ma anche in altre zone della città di Roma.
Alcuni di loro furono rilasciati perché componenti di famiglie di sangue misto o stranieri e 1.023 rastrellati furono deportati direttamente al campo di sterminio di Auschwitz. Sopravvissero solo in 16, tra cui una sola donna. Il dramma umano di quel giorno può essere rivissuto in “16 ottobre 1943. La razzia”, a cura di Marcello Pezzetti. Eccone un estratto: “Nell’area dell’antico ghetto vengono chiuse tutte le strade di accesso; nelle altre zone, sorvegliati i portoni. Alcuni uomini rimangono di guardia al camion, mentre altri fanno irruzione nei palazzi e negli appartamenti sorprendendo gli ebrei nel sonno. Alle vittime viene consegnato un biglietto in italiano con le istruzioni relative alla loro imminente deportazione: hanno 20 minuti per preparare le valigie e abbandonare le case dopo averle chiuse a chiave. Tutti, compresi quelli gravemente ammalati, devono raggiungere i camion che man mano vanno riempiendosi. Gli ordini urlati in una lingua incomprensibile, le divise e le armi ostentate contribuiscono a creare un’atmosfera di terrore”.
RASTRELLAMENTO GHETTO DI ROMA: IL MODUS OPERANDI DELLA GESTAPO
Ancora Pezzetti, nel suo scritto sul rastrellamento del ghetto di Roma, racconta che il modus operandi variava da squadra a squadra: alcuni, particolarmente zelanti, forzavano le porte con veemenza, mettevano fuori uso le linee telefoniche, perquisivano i palazzi per intero; altri, in particolare i componenti della Polizia d’Ordine, si limitavano a bussare. Spesso si fidavano di quanto veniva loro dichiarato dagli altri inquilini e in molti casi trascuravano di sorvegliare le possibili vie di fuga. Persino il controllo delle persone da deportare non avveniva in maniera sistematica: alcune squadre fermavano tutti i presenti; altre si attenevano agli elenchi, in altri casi ancora c’è chi con un pretesto riusciva a passare per un ospite occasionale e a sfuggire così all’arresto.
“Le notizie sulla razzia – prosegue Pezzetti – si diffondono velocemente. Non tutti gli ebrei vengono catturati: una parte al momento della retata è già fuori di casa; altri riescono a fuggire scappando sui tetti, per i cortili interni o saltando sui tram. Molti bussano ai portoni di sconosciuti, anche di alcuni conventi; altri ancora vagano semplicemente per la città, non sapendo dove e come nascondersi. Ad aiutarli sono spesso i vicini, i portieri, i passanti che spontaneamente li accolgono in casa, distraggono i persecutori, mettono in allerta chi non è ancora stato cercato”.