Salvo accordi dell’ultimo minuto, che nella corsa al Quirinale sono sempre possibili, la prima votazione per il nuovo Capo dello Stato sembra destinata a concludersi con il trionfo della scheda bianca. A meno di un miracolo nel previsto faccia a faccia fra Letta e Salvini, i grandi elettori di centrodestra, quanto quelli di centrosinistra, non dovrebbero scrivere alcun nome sulla scheda. Segno che l’accordo ancora non c’è, ma che ci si sta lavorando, e nessuno vuole comprometterlo votando inutili candidati di bandiera.
Da qui in poi, però, si entra in una nebbia fitta, che il passo indietro di Berlusconi non ha contribuito granché a dissipare. Il nodo vero, al di là delle dichiarazioni di facciata, rimane Mario Draghi. Tutto gira intorno al suo nome. E per capire il vero stato dell’arte bisogna analizzare la dichiarazione più interessante della domenica, quella di Matteo Renzi: Draghi può farcela, ma non si va al Colle contro partiti: “In Italia se uno parla male dei partiti va dappertutto. C’è un unico spazio nel quale la Costituzione impedisce di andare contro i partiti, è il Quirinale”. Proviamo a tradurre: la politica, che ha subito l’ascesa di Draghi alla guida del governo imposta da Mattarella, non può accettare una ulteriore marginalizzazione. Pretende garanzie sul dopo: su chi guiderà il governo, sulla composizione dello stesso, sul suo programma. Garanzie che, evidentemente, non sono ancora state date.
Se Draghi trovasse il modo di fornirle riservatamente, con ogni probabilità cadrebbero tutte le riserve, anche quelle di coloro che oggi dicono no, da Berlusconi a Salvini, a Conte. Tirerebbero un sospiro dì sollievo anche le anime perse del gruppo misto, che temono come la peste uno scenario di rapido precipitare verso il voto anticipato, un anno prima della fine naturale della legislatura.
L’impressione è che sinora Draghi sia rimasto a guardare, forte del suo prestigio. Come se, con un pizzico di presunzione, considerasse ineluttabile il suo approdo al Quirinale, facendo aleggiare la minaccia di farsi da parte da tutto. Ma per la politica chiarire l’equilibrio con l’alieno Draghi rappresenta una sorta di linea del Piave, anche in chiave futura, quando fra poco più di un anno la parola tornerà in ogni caso agli elettori. Non a caso è proprio il centrodestra lo schieramento che frena di più, e Letta vuole da Salvini chiarimenti proprio su questo.
Qualora la candidatura di Draghi dovesse definitivamente tramontare, la situazione si complicherebbe. Trovare l’intesa su un nome condiviso sembra sempre più difficile. Le candidatura cadono, una dopo l’altra. Salvini si è incaricato di dire che non considera quella di Pierferdinando Casini una ipotesi ascrivibile al centrodestra. Sulla barricata opposta, il nome del fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi non è stato messo in campo come candidato di bandiera, ma non scalda i cuori di nessuno a destra. Nei contatti riservati degli ultimi giorni è stato falciato un intero plotone di nomi di area moderata, dalla presidente del Senato Casellati all’ex sindaco di Milano Letizia Moratti, dall’ex numero uno di Palazzo Madama, Marcello Pera, all’ex ministro Giulio Tremonti. In parallelo, non fanno breccia a destra neppure i nomi di Giuliano Amato e di Paola Severino.
Il quadro è desolante: continua a mancare anche il patto di legislatura per garantire la prosecuzione di governo. Per trattare c’è tempo sino alla quarta votazione, giovedì 27, quando il quorum dai due terzi dei grandi elettori scenderà alla maggioranza assoluta, da 672 a 505 voti, dal momento che anche l’accordo più blindato rischia di essere impallinato dai franchi tiratori nella prima fase.
A quel punto, in caso di stallo (e di mancato accordo su Draghi) non resterà ai partiti che una mossa disperata da fare: supplicare Sergio Mattarella di superare le proprie riserve e accettare la rielezione, sin qui giudicata sbagliata e impraticabile. L’ostentato fine settimana palermitano del presidente uscente parla da solo della sua volontà di dire basta. A quel punto, però, saremmo in vera emergenza democratica: non a caso Enrico Letta parla del Mattarella bis come la soluzione perfetta. L’unica che costringerebbe Draghi a restare a Palazzo Chigi. Nulla, però, è ancora scritto, tutto può succedere.
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