Tutti gli osservatori sono stati concordi nel rilevare il punto di discontinuità nella gestione dell’emergenza sanitaria a scuola fra il governo Draghi ed i suoi predecessori. Fino alla primavera 2021, l’approccio prevalente, e quasi unico, è stato quello della “rimozione” del problema: si va in Dad e si risolve la questione del distanziamento sociale. Soluzione radicale e sicuramente più facile che non sciogliere i nodi dei trasporti o quelli del tracciamento dei contagi. La scuola, al di là delle dichiarazioni di facciata, come anello debole e sacrificabile del sistema dei servizi sociali.
Da settembre in avanti, la parola d’ordine è cambiata: le scuole devono restare aperte, costi quel che costi, e se mai saranno le ultime a chiudere. L’isolamento dei contagi diventa selettivo e viene affidato da un lato all’allargamento della platea dei vaccinati e dall’altro al sistema dei tamponi, ulteriormente distinto in T0 e T5 ed affidato, in teoria, alle Asl, che dovrebbero assicurarne l’effettuazione in tempo reale e gratuitamente.
Ovviamente, gettare il cuore oltre l’ostacolo non è bastato: le Asl hanno rapidamente abdicato di fronte al numero enorme di tamponi da effettuare. Il T0 è diventato spesso T4 o T7, quando non ha dato luogo ad una esplicita dichiarazione di non poter provvedere. Le famiglie sono state messe di fronte al bivio tra pagarselo da sole o veder allungare la quarantena preventiva di parecchi giorni. Le scuole, a loro volta, si sono trasformate in succursali delle Asl, per tenere il conto dei tamponi, della percentuale di vaccinati, degli esiti, delle variazioni continue nei numeri all’interno delle classi. Nonostante ciò, la Dad non è stata evitata del tutto: secondo stime ufficiali, riguarda il 7,5% delle classi, ma questa cifra si riferisce solo alle classi complete e non tiene conto degli allontanamenti individuali, difficili da contabilizzare a livello generale.
In aggiunta, l’obbligo vaccinale per i docenti – coniugato con la sospensione per i “non in regola” – ha introdotto un’ulteriore variabile. Non si sa come sostituire i docenti malati o sospesi per mancanza di vaccinazione: le graduatorie sono quasi tutte esaurite ed i pochi ancora presenti in esse riluttano ad accettare supplenze di cui non si può per legge garantire la durata effettiva. Allora si è data via libera alle Mad – Messe a disposizione, cioè dichiarazione di disponibilità da parte di aspiranti non inclusi nelle graduatorie. Risultato: le scuole sono state sommerse da migliaia di domande, ciascuna delle quali deve essere valutata e graduata.
Ci sono poi le infinite variabili che la norma non copre ed in cui ci si muove a vista, cercando di schivare le bordate di diffide legali e di vere e proprie intimidazioni. Insomma, la scuola sarà pure aperta, ma è difficile dire quale sia il suo livello reale di efficacia operativa.
Sarebbe stato meglio allora ricorrere alla Dad, se non altro per qualche settimana o un mese? Chi scrive, nonostante le molte evidenze contrarie, non lo pensa, per almeno due ragioni.
La prima: la scuola aperta – sia pure con tutti i problemi qui solo sommariamente evocati – significa che i genitori in grande maggioranza possono lavorare. Si evita, cioè, il disastroso fermo dell’economia nazionale, che ha rappresentato uno dei costi più pesanti del primo anno della pandemia. Si potrà storcere il naso di fronte ad una visione della scuola come “luogo di custodia”: ma chi ha la responsabilità generale del governo non può ignorare che essa è anche questo.
La seconda: la scuola ha un valore ed un significato altamente simbolici nella vita di una comunità. Al di là della sua produttività – sempre difficile da misurare – essa rappresenta anche un segnale delle priorità che si vogliono dichiarare e mantenere. Senza voler ricorrere a metafore guerriere che sono certamente fuori luogo, resistere su un avamposto che si sa comunque difficile da difendere indica una volontà collettiva di non cedere alle difficoltà, di non gettare la spugna. Indica quello che una volta si chiamava “senso delle istituzioni” e generava rispetto. Molti dirigenti lo hanno compreso: e, pur maledicendo in cuor loro le contingenze in cui sono chiamati a gestire, tengono duro e mantengono più in alto che possono il livello di apertura del servizio.
Eppure la questione non sarebbe impossibile da risolvere, o almeno da alleviare. Se ci si riflette, si vedrà che il sistema sanitario e quello scolastico condividono lo stesso problema: sanno fare bene quello che è il lavoro per cui esistono, mentre vanno in affanno quando sono chiamati a svolgere un ruolo di supplenza rispetto ad altre funzioni, soprattutto a risorse invariate.
Il sistema sanitario sta facendo miracoli su due versanti: quello delle vaccinazioni, che procedono a ritmi da primato, e quello delle cure ospedaliere, che riescono a tenere botta anche a fronte della diffusione esplosiva dell’ultima variante, senza mandare al collasso le terapie intensive e i reparti ordinari. Scene come quelle della primavera 2020 – ricordate la notte di Bergamo? – sono per fortuna un lontano ricordo.
Dove il sistema va in affanno è quando è chiamato a tenere in pari la contabilità dei tamponi e le azioni che ne conseguono. Cioè un lavoro che, a ben pensarci, è più di natura amministrativa che sanitaria. Messi alle strette, giustamente, danno la precedenza al loro core business, e trascurano il resto.
Il sistema scolastico ha fatto e continua a fare cose incredibili, se si considera il numero e la complessità delle variabili che deve gestire: dove va in crisi è, anch’esso, nella gestione di un compito non suo, come la contabilità dei tamponi, delle quarantene, degli isolamenti fiduciari e di tutto il carico di comunicazioni che questo comporta. Come pure il diluvio di richieste di supplenza da parte di aspiranti occasionali. Lavoro amministrativo, anche qui, e non educativo o formativo: ed a segreterie invariate, anzi a loro volta falcidiate dai contagi e dalle quarantene. L’organico Covid è stato dato con generosità quando le scuole restavano chiuse, ma quest’anno è stato centellinato, quando sarebbe stato più necessario.
In conclusione, si è cercato di risolvere problemi che erano di natura amministrativa e gestionale mettendo sotto pressione il personale di servizi pubblici nati per altre funzioni: nelle scuole, essenzialmente i referenti Covid e i responsabili di plesso, oltre naturalmente ai dirigenti, che sono gli unici di cui si può dire che non sono estranei a doveri amministrativi. Ma, anche qui, est modus in rebus: non si può pensare di moltiplicare gli adempimenti all’infinito e sempre a costo zero.
Una proposta, date queste premesse, non dovrebbe essere troppo difficile da avanzare e neppure da realizzare. Occorre un apporto temporaneo, per il tempo che servirà, di risorse amministrative da mandare a supporto delle scuole e del servizio sanitario: non docenti o infermieri, ma impiegati chiamati a fare un lavoro per il quale sono assunti. Anche in ragione di due per scuola si tratterebbe di 15mila persone, da assumere con contratto a tempo determinato per quattro o sei mesi. Più quelli necessari per il sistema sanitario: anche a voler considerare 30 persone per ciascuna delle 225 Asl esistenti, non si arriverebbe a 7mila unità. A spanne, e in totale, meno di 200 milioni.
Whatever it takes era ben altra cosa, signor Presidente: e il segnale che verrebbe dato sarebbe ben altrimenti forte a livello delle famiglie e della pubblica opinione.
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