La seconda votazione per il Quirinale è stata la fotocopia (bianca) della prima. Ieri è stato tuttavia il giorno della terna presentata dal centrodestra: in ordine alfabetico, Letizia Moratti, Carlo Nordio, Marcello Pera. Un’imprenditrice che ben conosce la politica, un magistrato in pensione, un filosofo che fu presidente del Senato. Tutte e tre figure di area, due di esse con ruoli nei governi o nelle istituzioni, nessuna però con la tessera di un partito in tasca. Questo è il primo messaggio lanciato al centrosinistra, ed è un segnale di dialogo importante: la destra non propone nomi direttamente riconducibili ai partiti. Per questo è saltato Antonio Tajani, che fu commissario europeo e presidente del Parlamento di Strasburgo: oggi è il vice di Silvio Berlusconi in Forza Italia. Era stato lo stesso Cavaliere a fare il suo nome. Ed è un altro “niet” che arriva dalle parti di Pd, M5s e Leu.
Nel centrosinistra si gioca ancora di rimessa. La terna salviniana viene ritenuta rispettabile quanto irricevibile perché incapace di coagulare una “larga condivisione”, ma non viene avanzato un terzetto alternativo “per non creare muri”. Enrico Letta propone di prendere i leader dei partiti, chiuderli in una stanza, buttare la chiave e tenerli a pane e acqua finché non se ne viene a capo. Un conclave rigidissimo. Segno che, da parte loro, il nome ancora non c’è. Perché la prima opzione di Letta, cioè Mario Draghi, continua a perdere terreno. E l’altra ipotesi messa in campo finora, Elisabetta Belloni, diplomatica, attuale capo del Dis (servizi segreti), ha trovato un largo fuoco di sbarramento.
Lo schema è dunque quello di trovare nomi politici ma non partitici. Da oggi si vota al mattino (e sarà l’ennesima passerella di schede bianche) mentre il pomeriggio sarà dedicato alle trattative tra le delegazioni dei partiti. Sarà una giornata chiave perché si vedrà se effettivamente i due schieramenti hanno voglia di trovare un accordo su un nome che possa essere presentato e votato domani, giovedì. Al momento il borsino di Draghi è in calo: troppo complicato negoziare adesso sia il presidente sia il futuro del governo. E poi in Parlamento, in particolare nel M5s, l’aria che prevale è quella di chi vuole muovere le acque il meno possibile. Il governo deve restare com’è, senza nemmeno pensare a spostare l’ultimo dei sottosegretari.
Così al Pd non restano molte carte da mettere sul tavolo. Ma il gioco, per Letta e Conte, è ad alto rischio. Se oggi ponessero altri veti, o mettessero in campo – per guadagnare tempo – un’altra terna destinata a essere impallinata dalla controparte, si continuerebbe con i tatticismi che proprio Letta rimprovera a Salvini. Ma il contesto, rispetto all’abile mossa tattica del centrodestra, sarebbe radicalmente diverso: domani il quorum scende. E il gioco si farebbe duro. Senza un accordo, Salvini, Meloni e Tajani potrebbero, per esempio, decidere di forzare la mano e schierare Elisabetta Casellati, che per ragioni di rispetto istituzionale e astuzia politica Salvini ha tenuto fuori dalla terna. Pare che lo scouting per la presidente del Senato sia già stato avviato. È una figura istituzionale (seconda carica dello Stato), è donna e ha già preso i voti del M5s quando fu eletta alla presidenza dell’assemblea di Palazzo Madama. Alla Casellati mancherebbero gli stessi voti disperatamente cercati da Berlusconi, ma un certo numero di 5 stelle (ed ex 5 stelle) sarebbero pronti a votarla sia pure senza grandi entusiasmi. Se si aggregassero anche i renziani – l’ex premier si è detto disponibile a votare un candidato di centrodestra – sarebbe fatta. Al centrosinistra conviene dunque trovare l’accordo. E se il centrodestra dovesse fallire l’operazione? In tal caso sarebbe pronto Casini. Gli spazi del centrosinistra sembrano restringersi sempre di più. In fondo al tunnel resta, forse, la carta Amato.
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