A seguito di un intervento ai polmoni la giovane Marta (Ludovica Francesconi) può finalmente costruirsi una vita con il suo ragazzo (Giuseppe Maggio), mentre i suoi amici dovranno adattarsi a questo e tanti altri cambiamenti nelle loro vite. Trattandosi di un teen movie per cui sono leggermente fuori target, e del capitolo conclusivo di una trilogia di cui non ho visto i titoli precedenti, mi è difficile valutare un film del genere; tuttavia, cercherò di procedere con un’analisi accurata di cosa e perché non funziona nella pellicola, oltre a ragionare su come un film diretto a un pubblico giovanile non debba per questo essere esente da critiche.
Fin dal primissimo atto è già possibile intuire che il film è privo di una trama vera e propria: i vari personaggi vanno incontro a una serie di difficoltà, che si dividono in quelle risolvibili in trenta secondi e messe lì solo per creare dramma e quelle effettivamente serie, a loro volta superate con una leggerezza e velocità che privano lo spettatore di qualsiasi soddisfazione. Questo difetto è ulteriormente esacerbato dalla natura corale del film: non solo ci sono alcuni personaggi che vediamo in due scene in croce, ma quelle scene si esauriscono senza rapportarsi alle storie degli altri e risultano quindi slegate. Il risultato è che il film si trascina per la sua pur breve durata senza avere una vera e propria spinta, senza far mai venir voglia allo spettatore di chiedersi “che cosa succederà dopo”?
Si potrebbe argomentare che un film incentrato sulla quotidianità di personaggi tutto sommato comuni – di genere quindi slice of life – non necessiti di chissà quali eventi per funzionare. È così: basterebbero le interazioni tra i personaggi a far reggere la pellicola, se non fosse che la qualità dei dialoghi è atroce. In tutto il film di scene recitate in maniera realistica ce n’è una, mentre il resto è un continuo susseguirsi di battute tanto plasticose da snaturare i momenti che potrebbero effettivamente strappare una risata. È un peccato, perché se c’è un merito da attribuire al film è proprio la sinergia che si instaura tra i vari attori, in particolare Gaja Masciale e Josef Gjura che vestono i panni di amici e famiglia adottiva della protagonista. Forse è in parte un caso di sindrome di Stoccolma, considerato che me li sono dovuti sorbire per quasi due ore, ma mi sarebbe piaciuto vedere quegli interpreti e quei personaggi con dietro una sceneggiatura degna di questo nome.
Una menzione d’onore va fatta alla fotografia del film, che evidentemente è ambientato in un futuro distopico in cui le lampade elettriche hanno perso potenza e il sole ha assunto una tinta giallastra. Ogni singola scena è immersa nella penombra e taglia i volti dei personaggi con delle ombre durissime. Scena drammatica? Penombra. Scena comica? Penombra? Lettino di un’ospedale in un momento di crisi che necessita le migliori condizioni di visibilità per i dottori? Penombra. Come se non bastasse tutti i colori sono ipersaturi, sparati a mille, il che cozza con la penombra sopracitata; mi viene da pensare che il direttore della fotografia abbia subito la cura Ludovico, solo che mentre lo torturavano invece di fargli sentire Beethoven gli stavano facendo vedere Amélie a ripetizione.
È evidente che Sempre Più Bello non ha particolari velleità cinematografiche, ma non gli si può dire che non sia un film furbo. Le situazioni descritte nella pellicola sembrano uscite da una versione del Matrix progettata appositamente per dei quattordicenni: lasciare il lavoro perché non ci si vuole svegliare presto va bene, tanto una soluzione si trova sempre; a vent’anni si può diventare professore di liceo in barba ai gironi infernali che sono i bandi; la protagonista ha un rapporto travagliato con la famiglia ma non ha nessuno dei problemi che deriverebbero da tale rapporto, perché con l’eccezione di qualche momento strappa-lacrimone è tutto raggi di sole e arcobaleni.
Accusare un tale film di essere diseducativo sarebbe eccessivamente drammatico, ma non mi sento neanche di perdonargli qualche difetto in virtù della sua spensieratezza, perché questa di genuino ha ben poco.
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