Maria Del Savio Bonaudo, procuratore capo di Aosta all’epoca del delitto di Cogne, nel quale morì il piccolo Samuele Lorenzi, ha sottolineato come Anna Maria Franzoni sia “colpevole, ne sono convinta. Ma non perché sia stata condannata in tutti i gradi di giudizio, piuttosto perché c’erano prove decisive contro di lei. Non c’erano altre possibilità, l’accusa era fondata”. Le affermazioni sono state pubblicate nell’ambito di un’intervista pubblicata sulle colonne del “Corriere della Sera”, sulle quali la dottoressa Bonaudo ha ricordato come le indagini abbiano richiesto grande intelligenza, attenzione e puntigliosità.
“Ho saputo delle indagini solo alla sera, la segretaria del pm si era dimenticata di avvisarmi – ha asserito –. Erano momenti concitati. Stavo andando dal sindaco per la fiera di Sant’Orso quando mi hanno chiamata, sono caduta dalle nuvole. Da Roma volevano informazioni, ma nelle ore successive al fatto non avevamo certezze. La dottoressa Ada Satragni, vicina di casa della vittima e medico condotto, sosteneva che al bambino fosse esplosa la testa, contro tutte le evidenze scientifiche, mentre i medici dell’ospedale dicevano che si trattava di un atto violento. Bisognava quindi aspettare l’autopsia”.
ANNA MARIA FRANZONI E LA PROVA CHIAVE: “NON POTEVA CHE ESSERE STATA LEI”
In quelle ore, a Cogne le famiglie erano allarmate, pensavano ci fosse in giro per il paese un mostro e Maria Del Savio Bonaudo ha rammentato al “Corriere della Sera” di non avere mai detto inizialmente che fosse Anna Maria Franzoni a uccidere Samuele: “Abbiamo fatto tutti gli approfondimenti possibili, abbiamo sentito e monitorato tutti i possibili sospetti indicati dalla famiglia. Poi, i tecnici del Ris hanno rilevato il sangue sulle ciabatte, quelle che lei indossava prima di uscire di casa mentre dopo calzava gli stivaletti, ed è stato trovato il pigiama sotto le lenzuola. Insomma, si è chiarito che non poteva che essere stata lei. Avevamo le prove, sono state raccolte bene”.
La vicenda era diventata complessa per una serie di motivi, dall’interesse mediatico alla commozione e alla sofferenza che destò nei cittadini. Tutti chiedevano una risposta veloce, ma per darla servivano tempo e certezze. Il momento più difficile fu quando, sui quotidiani fu pubblicata la notizia che l’assassino indossava il pigiama: “Noi lo sapevamo in camera caritatis, perché ci era stato anticipato, ma non potevamo chiedere una misura cautelare sulla base di informazioni orali, avevamo bisogno di una relazione scritta, per la quale ci volevano un paio di giorni. Dopo quegli articoli, la gente si chiedeva come mai non l’arrestassimo. A far trapelare la notizia era stato un mio sostituto procuratore, che consideravo come un figlio maggiore. Forse era deluso perché non gli avevo affidato il caso. Tra di noi era abitudine condividere tutto. È stato un tradimento”.