Non è mai facile stabilire che cosa pensi effettivamente sul senso della vita l’uomo d’oggi, anche a motivo dei veloci e imprevedibili mutamenti tecnologici e culturali avvenuti negli ultimi decenni, non ultimo la pandemia e le sue conseguenze. Talora si potrebbe pensare che non si espliciti nettamente la domanda sul senso della vita, perché si teme che non vi sia una risposta risolutiva e si rinunci così a spingere fino in fondo l’acceleratore del desiderio.
Ma c’è un dato che s’impone non appena si rifletta con serietà andando oltre uno scientismo o naturalismo evoluzionistico che, restando alla superficie, sembrerebbe spiegare tutto appiattendo e banalizzando e che talora ha corrotto perfino la nostra capacità d’immaginare altrimenti: la vita, la nostra vita è un mistero.
Che la vita sia un mistero significa almeno che la domanda sul senso è aperta a diversi possibili esiti. E tale mistero si manifesta innanzitutto e soprattutto, come già sottolineava Hannah Arendt, nel fatto della nascita: che ciascuno di noi sia al mondo qui ed ora con queste caratteristiche fisiche e psicologiche, con questa storia, con questa particolarissima individualità, con questo preciso nome e, insieme, con questa apertura all’infinito della ragione e del desiderio. Che tu ed io siamo qui è radicalmente inspiegabile. Non è il dato della inevitabilità della morte, orizzonte che certo incide profondamente sulla vita quotidiana di chi vive da sveglio (come scriveva Eraclito), ad essere prioritario. Ma lo è il fatto che in un preciso momento della storia siamo nati. La morte è la conseguenza inevitabile del fatto di essere viventi e finiti, ovvero la conseguenza del fatto che si è nati, che ora si è e prima non si era. Ma – a ben vedere – l’eccesso del venire dal nulla con la nascita eccede l’eccesso del destino mortale. Ed è proprio questa sproporzione a rendere possibile la speranza. La speranza è custodire l’incredibile che siamo perché nella vita viviamo già in certa misura il senso, grazie appunto all’evento della nascita.
Su questo e altri temi fra loro connessi si sofferma la riflessione del filosofo catalano Josep Maria Esquirol in un volume – l’ultimo di una trilogia – tradotto recentemente da Vita e Pensiero (Umano più umano. Un’antropologia della ferita infinita, 2021). Confrontandosi con classici del pensiero antico e contemporaneo (da Nietzsche a Lévinas), egli elabora un’antropologia della strutturale passività dell’uomo, ovvero della sua ferita infinita: dal momento che sentiamo che sentiamo siamo vulnerabili di fronte a quattro ferite: oltre a quelle della vita e della morte, pure di fronte alla natura e soprattutto agli altri. Ed è a partire dal gusto e dal godimento della vita, dalla sua positività, che si definisce per contrasto ogni sofferenza. Queste ferite che si manifestano come incontri o avvenimenti danno origine ad azioni (rendere più intensa la vita, fare compagnia, “fare mondo”, prepararci alla morte) le quali danno senso alla vita e permettono di aprirsi alla speranza.
Come già per Hannah Arendt, la capacità umana di promettere e di perdonare è una dimensione significativa di queste azioni con cui si cerca di rispondere alla provocazione della ferita infinita: “Qualcosa ci accade, e per questo promettiamo. Qualcosa ci accade, e per questo cerchiamo di dimenticare. Qualcosa ci accade nel profondo, e per questo esiste l’indimenticabile” (p. 49). La vita spirituale è prendersi cura dell’indimenticabile.
Se la vita dell’uomo è fondamentalmente risposta, quale posizione, quindi, è veramente umana? Per Esquirol quella del poeta. Poeta (da poiein, fare) è colui che “sa curvare l’azione sulla gravità della ferita infinita. È chi trae dalla ferita infinita la passione per creare più vita, più mondo e più senso. Poeta è chi nel solco della ferita e nel palmo della mano, mantiene e congiunge quanto più si può” (p. 87).
Si tratta, facendo memoria, di mantenere e congiungere. Se attraverso questa ferita infinita l’uomo religioso può intravedere Dio che interpella l’uomo, Esquirol, che è un filosofo cristiano, si sofferma sul valore umano paradigmatico della dolcezza come modo di essere di Dio stesso. La dolcezza si oppone all’esaltazione della freddezza spassionata e cinica di fronte alle ferite dell’esistenza: la cosa più facile è giudicare; la più difficile, astenersi dal farlo.
Ispirandosi al francescanesimo, egli annota che “la migliore tecnica di mediazione è essere un uomo di pace” (p. 104). In sintesi: essere veramente umani non significa spingersi al di là dell’umano (l’utopia del transumanesimo), ma consapevoli della ferita che ci interpella, “rendere più intenso l’umano che è nell’umano, renderlo più profondo: è questo il valore più grande di tutti” (p. 7).
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