È più forte o più debole il Governo Draghi dopo la rielezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica? Ce lo chiediamo da quando, dopo due settimane dedicate essenzialmente all’elezione del capo dello Stato, l’Esecutivo ha ripreso le proprie attività.
I segnali sono contrastanti. Da un lato, il presidente del Consiglio ha ritrovato il piglio che aveva sino a tre mesi fa (quando sono cominciate a balenare le prospettive di un trasloco da palazzo Chigi al Quirinale) nell’indicare, con fermezza, la rotta al primo Consiglio dei ministri della settimana scorsa, in materia di Piano nazionale di ripresa e resilienza. Da un altro, ha mostrato segni di debolezza quando, al secondo dei Consigli dei ministri della settimana scorsa, i Ministri di una delle parti politiche che pur sostengono il Governo hanno lasciato la sala, dov’era in corso la riunione, quando si discuteva lo schema del disegno di legge sulla prudente ripresa di varie attività in linea con la flessione della curva pandemica.
Una dimostrazione chiara della coesione e saldezza dell’Esecutivo si avrà con la preparazione del Documento di economia e finanza che deve essere predisposto entro metà aprile e che traccerà le linee della politica economica per i prossimi tre anni. Senza dubbio, il presidente del Consiglio Draghi e il ministro dell’Economia e delle Finanze Franco si atterranno alle direttive della Commissione europea (e del buonsenso) di una riduzione della spesa di parte corrente (partendo dai vari bonus e dalla review della spesa sociale) al fine di potenziare quella per investimenti e di diminuire il ricorso all’indebitamento. Quanto queste direttive saranno condivise (o accettate obtorto collo) da forze politiche in campagna elettorale e il cui supporto, anche finanziario, dipende da spese di parte corrente spesso di dubbia utilità collettiva?
Ci sono banchi di prova più immediati. Il primo è la riforma della giustizia civile e penale su cui ha posto l’accento il presidente della Repubblica nel discorso di insediamento il 3 febbraio. In materia, tutto sembra tacere e si è diffusa l’impressione che le proposte governative siano nella palude del Parlamento. Invece, con la Legge n. 206 del 2021, il Parlamento ha approvato una delega al Governo per la riforma del processo civile. Il provvedimento si compone di un unico articolo suddiviso in 44 commi e presenta un duplice contenuto: da una parte contiene la delega espressa rivolta all’Esecutivo, dettando specifici principi e criteri direttivi, e dall’altra modifica direttamente alcune disposizioni sui procedimenti in materia di diritto di famiglia, esecuzione forzata e accertamento dello stato di cittadinanza. La legge fissa in un anno dalla sua entrata in vigore il termine per l’esercizio della stessa, che dovrà dunque essere completata entro il 24 dicembre 2022.
Lo stesso vale per il processo penale, su cui è intervenuta la legge n. 134 del 2021. Tale provvedimento si compone di 2 articoli. Il secondo contiene innovazioni al codice penale e al codice di procedura penale, immediatamente precettive. Il primo contiene invece anch’esso una serie di deleghe al Governo, che dovranno essere esercitate entro un anno dall’entrata in vigore della legge, ossia entro il 19 ottobre 2022.
Il lavoro dell’Esecutivo a oggi non è affatto completato e il risultato finale non è stato ancora ottenuto. Considerata allora l’assoluta complessità dell’adozione di tali decreti legislativi, e tenuto conto anche del fatto che nel 2022 l’Italia dovrà raggiungere altri 102 obiettivi sui 520 totali del Pnrr, saggezza vorrebbe che la delega venga esercitata entro la prima metà dell’anno – e venga abbinata con la dovuta riforma del Consiglio superiore della magistratura al fine sia di evitare che la finalizzazione di tali deleghe venga effettuata quando la campagna elettorale è in corso, sia allo scopo da dare al presidente del Consiglio un’indicazione di quanto è in grado di esercitare la sua funzione di indirizzo.
La seconda è la legge sulla concorrenza che si sarebbe dovuta approvare entro il 31 luglio 2021. È appena iniziata la discussione in Senato. Siamo in ritardo sui tempi e deboli nei contenuti, soprattutto per le concessioni fatte a gruppi di pressione (concessioni balneari, taxi, ecc.) dato che quando si varava il disegno di legge il presidente del Consiglio già sognava il trasloco al Quirinale. Una maggiore concorrenza è quanto mai necessaria non solo per la crescita ma anche in quanto sta alzando la testa l’inflazione che può diventare fonte di lucro per i settori meno concorrenziali. Il Governo dovrebbe intervenire con un maxi-emendamento che corregga i contenuti e su cui porre la fiducia. Draghi lo proporrà ai suoi Ministri ora che il trasloco non è più in programma? Avrà l’autorevolezza per farlo varare?
La terza prova è l’eterno tormentone sulla previdenza. Oggi 7 febbraio si dovrebbero concludere i lavori della commissione istituita presso il ministero del Lavoro per delineare una riforma organica delle pensioni. Dagli spifferi che vengono da quel marciapiede di via Veneto dove hanno sede gli uffici del ministro del Lavoro e da mezze dichiarazioni a destra e a manca che fanno, in spregio alla riservatezza e – presumo – per darsi lustro con i loro clientes (in vista della campagna elettorale), la commissione sta smontando pezzo a pezzo non solo la cosiddetta legge Fornero del 2011, ma anche l’impianto della riforma del 1995 tramite l’introduzione di una vera e propria marea di bonus di porte di uscita. In un’Italia in cui mezzo milione di persone gode di assegni di pensione dal 1980, si riporterebbe a 62 anni l’età “normale” di pensionamento per chi ha 41 anni di contributi tra effettivamente versati o figurativi oppure ancora coperti da bonus. In tal modo, invece di favorire i giovani come enunciato sia dal capo dello Stato, sia del presidente del Consiglio si agevolano i lavori maschi sessantenni ed attivi nel sindacato.
Draghi non è una specialista di previdenza. Lo è invece il ministro dell’Economia e delle Finanze Franco: partecipai con lui a convegni internazionali su questi temi una quindicina di anni fa. Devono fare correggere rotta al ministro del Lavoro e alla sua commissione prima che sia troppo tardi. Le proposte in fase di avanzata stesura metterebbero a rischio l’intero finanziamento europeo del Pnrr. Se non sono in grado mostrerebbero urbi et orbi che non tengono le redini dell’Esecutivo.
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