Il campanello d’allarme suona a metà pomeriggio, quando Mario Draghi pianta in asso il vertice Ue-Africa a Parigi, mette il suo discorso nelle mani di Emmanuel Macron, prende l’aereo e corre a Roma. Qui dapprima sale al Quirinale e poi incontra i capi delegazione dei partiti della maggioranza di governo per strigliarli sul loro comportamento della notte precedente. Nella nottata delle scappatelle il governo è andato sotto quattro volte in commissione su emendamenti al decreto Milleproroghe, che il giorno prima era stato votato all’unanimità dal Consiglio dei ministri. Un giorno tutti d’accordo, il giorno dopo tutti per conto loro: “Così non si va avanti”, ha protestato il premier secondo le veline di Palazzo Chigi.
Il tema è quello che si ripropone da dopo la rielezione di Sergio Mattarella: Draghi accusa lo smacco e non riesce più a gestire la sua maggioranza, nella quale non solo restano tutte le distanze emerse nei giorni del voto per il Colle, ma ormai ogni partito si sente in campagna elettorale e si muove per conto suo. L’altro giorno è stata fatta filtrare la “moral suasion” di Mattarella, che non vuole prestarsi al tiro alla fune ed è pronto, in caso di caduta dell’esecutivo, a mandare tutti a casa. Ieri l’irritazione è stata di Draghi: un provvedimento varato all’unanimità in Consiglio dei ministri non può essere oggetto di ripensamento il giorno successivo. La fuga da Parigi e l’incontro “fuori agenda” con il capo dello Stato danno teatralità all’indignazione draghiana.
Pare però che i partiti abbiano tenuto il punto. Da un lato, Draghi vuole addossare la responsabilità dell’impasse ai partiti mettendoli con le spalle al muro durante l’imprevista visita quirinalizia; questi ultimi viceversa puntano il dito contro il metodo del premier che in virtù dell’investitura presidenziale pensa di poter disporre a suo piacimento del sostegno parlamentare. I voti in Commissione sono segnali in codice a Palazzo Chigi, chiamato a cambiare registro.
Ma non c’è soltanto la scivolata del Milleproroghe a innervosire il premier. Oggi è convocato il Consiglio dei ministri sulla questione del caro energia. E qui sarà molto più difficile arrivare all’unanimità su un provvedimento. I soldi da aggiungere a quelli già stanziati per calmierare le bollette non sono molti perché Draghi non vuole un nuovo scostamento di bilancio. Allo stesso tempo, alla presidenza del Consiglio non sanno che pesci prendere, tant’è vero che l’altro giorno i ministri Franco e Cingolani hanno chiamato a consulto Claudio Descalzi, l’amministratore delegato di Eni. Da lui hanno voluto sapere di quanto si può incrementare la produzione nazionale di gas per offrirlo a prezzo politico alle aziende.
Descalzi però ha gelato le speranze. Oggi l’Italia consuma circa 76 miliardi di metri cubi di gas, di cui 3,3 miliardi estratti in Italia: poco più del 4 per cento. Se anche la produzione venisse raddoppiata, si otterrebbe un rattoppo, non una soluzione. In più l’Eni, tra i leader al mondo nelle introspezioni geologiche alla ricerca di idrocarburi, da oltre vent’anni non pianta una trivella in Italia per l’ostilità di sindaci, politici, ambientalisti, “nimby” di ogni genere. Vent’anni in assenza di una qualsiasi politica energetica e in presenza di leggi che non tutelano le industrie del settore. E ora a tutto ciò si aggiungono le incognite della transizione green. È un nodo intricatissimo che nemmeno SuperMario riesce a sciogliere. Ma ha già fatto capire come tenterà di venirne fuori: scaricando le colpe sui partiti in campagna elettorale.
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