A due anni dall’insorgenza dell’evento pandemico e con molte domande ancora aperte, è giunto il momento di riflettere a 360 gradi sui diversi temi associati all’evento pandemico: oltre ai contributi sull’incertezza dei dati e sul grave disagio psichico che ne è derivato, ci sembra utile fare anche il punto sulle conoscenze fin qui acquisite sull’origine della drammatica diffusione del coronavirus, più esattamente denominato Sars-CoV-2.
Già il nome attribuito all’agente virale rende evidente che la storia della pandemia deve essere ricostruita partendo dalla diffusione della prima epidemia di Sars del 2002-2003, contenuta soprattutto grazie alle misure di controllo attuate per opera di Carlo Urbani – medico italiano già premio Nobel per la pace nel 1999 – che operava per conto dell’Oms ad Hanoi e che per primo ha intuito la rilevanza di questa aggressiva infezione polmonare, di cui, purtroppo, è stato egli stesso vittima. L’epidemia di Sars (acronimo che, tradotto, significa “Sindrome respiratoria acuta severa”), iniziata nella provincia cinese del Guandong, si era poi estesa a Hong Kong, Singapore, Vietnam, Thailandia, Toronto e Germania, determinando in totale 8.422 casi, di cui 908 con esito letale. Una seconda epidemia da coronavirus, grave ma meno estesa, è poi insorta in Medio Oriente nel 2013 ed è nota come Mers (Middle East Respiratory Syndrome Coronavirus Infection).
L’origine della Sars e della Mers è zoonotica: dai pipistrelli, che costituiscono il serbatoio animale dei coronavirus, il passaggio all’uomo è stato possibile tramite la mediazione di un ospite intermedio (spillover), rappresentato dal furetto nel primo caso e dai dromedari nel secondo. Sorprendentemente, fino ad oggi non è stato invece identificato un animale spillover nel caso del Sars-CoV-2 e gli elementi via via acquisiti lasciano ancora aperto il campo delle ipotesi sull’origine della pandemia. Le prime fasi ufficialmente note sono così riassumibili:
31 dicembre 2019: le autorità comunali di Wuhan riferiscono di un cluster di polmoniti ad eziologia non nota con presunta origine al mercato del pesce di Wuhan;
9 gennaio 2020: il Cdc (Centro per il controllo delle malattie) cinese segnala l’identificazione di un nuovo coronavirus (19-nCoV) geneticamente correlato al virus della Sars (ma già in data 30 dicembre un oculista di Wuhan, Li Wenglian, aveva segnalato con una chat ai colleghi la presenza di un cluster di “Sars”, ma è stato poi messo a tacere ed infine è deceduto per il contagio con il nuovo coronavirus);
16 gennaio 2020: le autorità cinesi riportano 41 casi a Wuhan e 3 all’estero (2 in Thailandia e 1 in Giappone);
22 gennaio 2020: si constata la trasmissione da uomo a uomo dell’agente virale;
31 gennaio 2020: viene identificato il primo caso negli Usa in un soggetto di ritorno da Wuhan;
metà gennaio-20 febbraio 2020: sono riconosciuti 21 casi autoctoni nell’Ue (Baviera e Alta Savoia);
20 febbraio: con l’esecuzione di un tampone – eseguito fuori protocollo rispetto alla definizione di “caso” stabilita il 27 gennaio dal ministero (tra i criteri per definire un caso sospetto era inclusa una “storia di viaggi o residenza in aree a rischio della Cina, nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia”) – l’infezione da Sars-CoV-2 viene accertata in un soggetto, con anamnesi negativa per viaggi in Cina, sintomatico dal 14 febbraio, poi ricoverato all’ospedale di Codogno: è il “caso 1” in Italia.
Dal riconoscimento a Codogno del cosiddetto “caso 1” rapidamente il numero dei malati (e dei decessi) è aumentato soprattutto in Lombardia, regione italiana investita per prima dall’ondata pandemica nel 2020. Ma la diffusione in Lombardia e in Italia inizia veramente con il caso 1 o è stata preceduta da casi non identificati? A distanza di due anni da questo “inizio” dell’evento pandemico, quali ulteriori conoscenze abbiamo acquisito?
Oggi molte osservazioni inducono oggettivamente a retrodatare all’autunno 2019 (ma di questo poco si discute…) l’inizio della circolazione del Sars-CoV-2 in Italia. Prima di tutto in questa direzione portano già i risultati dell’inchiesta sul caso 1 che non ha permesso di ricostruire l’origine del contagio, ma che, oltre a constatare l’anamnesi negativa per viaggi in Cina e la presenza di altri 39 soggetti positivi al tampone molecolare per la ricerca di Sars-CoV-2 tra i “contatti” del paziente, ha riscontrato la positività nel 2% dei soggetti dell’edificio A sede di lavoro del “caso 1” e nel 6% di quelli dell’edificio B della stessa azienda non frequentato dal paziente; tali osservazioni, e anche il fatto che tutti i soggetti risultati positivi provenivano dai comuni della prima “zona rossa” del Lodigiano, erano già un chiaro indice di una circolazione del virus molto intensa. Da quanto tempo?
Senza entrare in dettagli tecnici, qui di seguito richiamiamo i risultati di alcuni studi pubblicati che, attraverso strade differenti, scientificamente documentano un esordio più precoce della pandemia nel nostro Paese.
• Attraverso la sorveglianza ambientale (basata sul presupposto che il soggetto infetto da Sars-CoV-2 nel 50% dei casi elimina il virus con le feci) è stata verificata la presenza del Sars-CoV-2 nei liquami nel Nord Italia (Milano, Torino e Bologna) a partire dal 18 dicembre 2019: è un segnale di una circolazione del virus già molto attiva nella popolazione.
• Constatata (ospedale di Bergamo) l’associazione tra l’infezione da Sars-CoV-2 e l’insorgenza della sindrome di Kawasaki nei bambini, il laboratorio di riferimento per la sorveglianza del morbillo (MoRoNet) ha condotto un’indagine retrospettiva su casi di sospetto ma non confermato morbillo, riscontrando la presenza del Sars-CoV-2 nel tampone faringeo (prelievo all’inizio di dicembre 2019) in un bambino di 4 anni di Magenta, con sintomi di rinite già dal 21 novembre 2019.
• Un ulteriore studio, testando i campioni provenienti da pazienti con rush cutaneo e febbre risultati negativi per il virus del morbillo (archivio della già citata sorveglianza MoRoNet), ha accertato la presenza di Rna virale in 11 su 44 (25%) soggetti in periodo pre-pandemico (agosto 2019-febbraio 2020, nelle province di Milano e Brescia), 5 dei quali positivi anche per la presenza di anticorpi anti-Sars-CoV-2; tra gli 11 casi la prima positività per Rna di Sars-CoV-2 ha riguardato un campione prelevato a Milano il 12 settembre 2019, mentre nessuna chiara evidenza di infezione è stata riscontrata in 281 campioni raccolti tra agosto 2018 e luglio 2019 da 100 pazienti.
• Uno studio di un gruppo di dermatologi dell’Università di Milano su casi di dermatosi in soggetti con Covid-19 e in soggetti considerati ad alto rischio di esposizione al contagio, ha individuato mediante biopsia eseguita a novembre 2019 la presenza del Sars-CoV-2 nelle lesioni dermatologiche in una donna di 25 anni, che presentava lesioni urticarioidi e per la quale era stata posta l’ipotesi diagnostica di lupus eritematosus.
• Uno studio sieroepidemiologico (cioè ricerca della presenza di anticorpi nella popolazione quale indicatore della diffusione dell’infezione) su quasi 1.000 soggetti sani, arruolati per un trial di screening per il tumore polmonare e provenienti da diverse regioni italiane, ha documentato già a settembre 2019 una prevalenza del 14% di anticorpi anti-Sars-CoV-2; la percentuale è aumentata nei mesi successivi (30% a febbraio) ed è risultata più elevata in Lombardia; i risultati sono stati confermati attraverso un cross-validation-study da un laboratorio esterno affiliato Oms.
Questa serie di evidenze scientifiche – ma sono state riferite analoghe osservazioni anche per altri Paesi – porta dunque a retrodatare l’ingresso del virus pandemico.
Tale conclusione non ha tuttavia solo una valenza di documentazione storica, ma pone una domanda critica: poteva essere più tempestiva l’identificazione dell’evento?
Certamente sì e questo sì rappresenta una lezione severa prima di tutto per gli addetti ai lavori (non solo nel nostro Paese). Lo strumento tecnico per essere più “pronti” (preparedness) è la “sorveglianza” dei fenomeni, che include l’adozione e l’applicazione di solidi piani pandemici. In questo senso, due anni dopo la Sars del 2003, allo scopo di essere pronti ad affrontare eventuali nuove emergenze di sanità pubblica a livello globale, l’Oms aveva varato le International Health Regulations (Ihr), vincolanti per gli Stati membri e, su questa spinta, nel 2005 anche il nostro Paese ha definito e approvato un primo piano pandemico, non successivamente aggiornato, ma nemmeno applicato nel 2019-20 quando sarebbe stato forse possibile riconoscere in anticipo la nuova pandemia da Sars-CoV-2.
Su questo e – sottolineiamo – sulla formazione di professionisti epidemiologi (non solo virologi o infettivologi) si deve investire: contano le risorse economiche, ma ancor più occorre colmare una carenza culturale nell’area della public-global health.
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