All’inizio di marzo di due anni fa l’Europa si trovò improvvisamente a fronteggiare una doppia emergenza: nell’immediato quella sanitaria portata dalla pandemia, mentre già all’orizzonte se ne disegnavano le pesanti ricadute socioeconomiche. Quando quella crisi non è ancora esaurita, l’invasione russa dell’Ucraina crea un nuovo doppio shock e a subirlo in pieno è ancora l’Unione europea.
Stavolta il primo fianco scoperto è dello della sicurezza militare, mentre le insidie economiche sono già più che incognite: la Russia ha iniziato infatti già la scorsa estate a usare come arma il prezzo del gas, con effetti inflazionistici gravi e già visibili per le famiglie e le imprese europee.
A differenza di due anni fa – e proprio in seguito alla pandemia – l’Europa si è nel frattempo dotata di un importante strumento di difesa politico-finanziario: il Recovery Plan. La decisione politica di mobilitare 700 miliardi di euro per sostenere in via strategica la ripresa di economia e occupazione falcidiati dal Covid è stata presa già due anni fa su una matrice impostata da Mario Draghi, ex Presidente della Bce e oggi Premier italiano. La scelta è andata a modificare e accelerare in corsa la direttrice strategica NextGenerationEu, che già all’indomani dell’euro-voto del 2019 intendeva far entrare l’Ue in una fase di rifondazione complessiva: all’insegna di una maggior coesione istituzionale e di una più marcata competitività globale.
In un momento di massima drammaticità come l’attuale non si tratta di una premessa da poco, anche se – naturalmente – pare inevitabile ragionare già sul rimodellamento di un “Recovery Plan-2” e sulla necessità di un ulteriore balzo in avanti in tutte le strutture e i meccanismi funzionali dell’Ue. La realtà preme già con sfide dure, ma non impossibili: quanto meno da affrontare.
Il neo-cancelliere tedesco Olaf Scholz, socialdemocratico, all’indomani dell’inizio della guerra russa ha subito annunciato la volontà di raddoppiare a 100 miliardi di euro gli investimenti militari, per ridare alla Germania un adeguato apparato di sicurezza esterna. Mentre il neo-ministro degli Esteri di Berlino – la verde Annalena Baerbock – non ha fiatato, il premier polacco Mateusz Morawieski ha alzato da 300 a 500 miliardi l’asticella minima della spesa militare europea per reggere la nuova pressione ostile dall’Est. Immaginare che sulla ricostruzione della difesa europea vengano dirottati in parte i fondi Pnrr originariamente destinati alla transizione digitale civile può essere una prospettiva politicamente dura per molti Parlamenti: ma sempre meno di quella di subire un’aggressione russa in stile ucraino. Val solo la pena di annotare che l’italiana Leonardo è un grande gruppo capace di produrre sistemi militari d’avanguardia su scala mondiale.
Ancora prima che l’escalation russa s’impennasse, il Presidente francese Emmanuel Macron aveva intanto annunciato impostare la transizione energetica transalpina rilanciando il nucleare: cui la Francia non ha mai rinunciato, tenendo aggiornate la tecnologie. Mentre Parigi ha messo in cantiere sei nuove centrali, il Consiglio Ue ha faticosamente incluso il nucleare fra le fonti di energia pulite, finanziabili con il Recovery. Berlino – nella cui maggioranza di governo sono appena rientrati i Verdi – si è astenuta, ma da sette giorni tutto sembra appartenere al passato. Il Vecchio Continente deve tornare a far quadrato attorno alla sua manifattura con politiche energetiche coerenti (e anche su questo terreno l’Italia – seconda industria dell’Unione – può contare su gruppi come Eni ed Enel e altre importanti utilities).
È scontato che il governo di strumenti finanziari eccezionali – e destinati prevedibilmente a diventarlo sempre di più – impongano nuovi schemi istituzionali a sostegno dell’unione monetaria. Anche su questo terreno l’Ue non parte da zero: la revisione della governance dell’euro – con la nascita di un vero “Fiscal compact” e di un “ministero delle Finanze” non più solo tecnocratico-brussellese – era già stata messa in agenda da Macron e dall’ex cancelliere tedesco Angela Merkel. Ora non c’è un attimo da perdere: come Mario Draghi non si stanca di ripetere. Whatever it takes.
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