Ha fatto il giro del mondo. La foto di Yelena Osipova, ottant’anni, con cartelli di protesta contro la guerra, arrestata a San Pietroburgo dagli agenti antisommossa. Sopravvissuta al terribile assedio di Leningrado, testimonia con la sua debole fragilità tutta la forza del vero. Non è sola. La rivista La Nuova Europa riporta l’appello di oltre 270 sacerdoti russi, che chiedono la cessazione della guerra e la pacificazione. Ricordano a tutti il calvario che stanno vivendo i fratelli ucraini e scrivono che “il Giudizio finale attende ogni uomo. Nessun potere terreno, nessun medico, nessuna guardia del corpo ci può far scampare a questo giudizio”.
La poetessa Maria Stepanova, poi, in un’intervista al Corriere della Sera del 2 marzo dice: “Noi non siamo nemici naturali degli ucraini, possiamo vivere nel mutuo rispetto, nel mutuo interesse, a volte nel mutuo amore. Quel che è accaduto getterà un’ombra per decenni”.
Guzel’ Jachina, autrice di Zuleika apre gli occhi, esprime con intensità emotiva su La Stampa tutto il suo dolore: “Sono così profondamente, intimamente contraria a questa scelta, che vorrei solo piangere e urlare. Non trovo nemmeno le parole: non ce n’è di abbastanza dure. Amarezza, rabbia, paura, sconcerto impotente: elevate tutte all’ennesima potenza”.
E tante persone semplici, giovani e intellettuali scendono nelle strade, gridando: “Niet Voinié (No alla guerra!). Altri listano a lutto il loro profilo Facebook o Telegram, manifestando pubblicamente il dissenso per l’invasione dell’Ucraina. Alcuni giornali e siti, inoltre, vengono chiusi per le loro posizioni equilibrate e pacifiche.
Ma chi sono queste persone? Chi sono questi Giusti di oggi che con i loro gesti ci ricordano i Giusti di ieri?
Non sono persone impeccabili, moralmente intransigenti o arroccate nel chiuso di una dottrina astratta e cristallizzata. Sono uomini e donne come tutti. Diversi nel carattere e negli interessi, ma con un comune denominatore. Tremano come noi per la storia, per ciò che accade. Il loro tremito non è paura o tentativo di fuga, ma coscienza del destino della realtà. Vedono il baratro avvicinarsi nella vita, sentendo tutta la loro e nostra esiguità di creature mortali. Nei loro sguardi non vogliono ospitare la terribile immagine di Caino che leva la mano contro il fratello Abele.
Il loro tremore, perciò, non è la resa alla violenza del Potere, ma l’indice di una radicale appartenenza a qualcosa di più grande e di più forte della storia. La ritroviamo nei testi di molti filosofi, scrittori, artisti e persone semplici, che hanno conosciuto il Gulag. In molti, ricorre l’esperienza della notte mistica, del buio dello spirito, del gelo interiore. Attraversati, però, dalla luce di un sì. Un sì in grado di scompaginare la chiusa compattezza del “tutti pensano così: meglio non coinvolgersi” o la materialistica convinzione che “contro la volontà di potenza non si può fare nulla”.
Gabriele Nissim in AA.VV., Storie di uomini giusti nel Gulag (Mondadori 2004) ricorda, perciò, che per Lévinas il giusto è chi, trascinato dalla pietas, vede nel prossimo un comandamento ad agire, sentendo la legge dell’altro nella profondità del suo essere. Egli non vende l’anima al Potere, perché sa di essere in rapporto con qualcosa di più grande. Šalamov, infatti, ne Le protesi – contenuto in Racconti di Kolyma – al suo personaggio principale, spogliato e senza difesa, di fronte al capetto di turno che lo umilia, fa dire una frase straordinaria: “No, l’anima non ve la do!”. È l’affermazione di una dignità imbattibile che viene prima del pudore sconfitto, della legge imposta, della violenza subita. Ed è questa verità iscritta nell’anima e scoperta con commozione che gli fa dire, nonostante la malattia e la cecità: “E sull’epoca pur tremenda/ Sono stato vincitore”.
E proprio a partire dai Giusti, che costituiscono le radici feconde della Russia, nasce la preoccupazione espressa da Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace e caporedattore di Novaya Gazeta, riguardo alla minaccia nucleare. Un rischio che, purtroppo, avvertiamo in un periodo drammatico. Esso ci rimanda alle parole dell’appello dei sacerdoti russi. E a Delitto e castigo di Dostoevskij. Raskol’nikov (scismatico) pensa di far tremare la microstoria come Napoleone ha fatto tremare la macrostoria, scoprendo, nel suo cammino, che, ognuno di noi, non può non tremare davanti al Destino della storia e di tutti.
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